Di latte italiano ce n’è poco, produrlo costa molto e quello che manca lo si acquista all’estero. Con la chiusura dell’epoca delle Quote latte, poi, è caduto quell’ultimo argine di disciplina dei quantitativi di produzione e il fattore prezzo rischia di farsi sentire in maniera ancor più pesante. E anche per la filiera veneta le ipotesi sul futuro sono all’insegna di una grande incertezza, rispetto alla quale l’unica reazione ragionevole è quella di rivedere nel profondo la mentalità imprenditoriale. Ossia lasciare alle lontane epoche felici la filosofia del «piccolo è bello», prendere esempio dai colossi europei e procedere ad aggregazioni per raggiungere l’efficienza che solo una sufficiente massa critica può consentire. «Sulla distribuzione un ragionamento stiamo cominciando ad affrontarlo – ammette Lorenzo Brugnera, presidente di Latterie Soligo, ossia uno dei tre player principali veneti del settore assieme a Lattebusche e a Latterie Vicentine – ma a parlare di fusioni si prende paura»
«C’è un percorso comunque di condivisione di certi punti, il fidanzamento lo hanno inventato per arrivare al matrimonio oppure per non fare troppi danni se ci si ripensa».
Sulle considerazioni di fondo, in ogni caso, concordano tutti, dagli allevatori ai trasformatori, dai distributori alle associazioni della categoria. Se ne parla da anni ma adesso per avere una percezione viva che il tempo utile è ormai agli sgoccioli basta guardare i numeri. Nel 2004 le aziende che producevano latte in Veneto erano 7.254, oggi sono 3.662; dieci anni fa vendevano 160 mila litri ciascuna, ora siamo sui 295 mila. Quindi gli allevamenti rimasti si sono ingranditi. Il consumo nazionale di latte alimentare va crescendo e viaggia ormai sopra i 2,5 miliardi litri, ma gli allevamenti italiani (concentrati prevalentemente a Nordest, in Lombardia e in Emilia Romagna) possono farvi fronte per non oltre il 60%. Il resto viene dall’estero ed estero può significare molte cose. Senza andare lontano, comunque, se in Germania il costo di produzione di un litro di latte è intorno ai 31 centesimi, da noi sale a 39,5. Se un litro in Italia lo si acquista a 35 centesimi, i tedeschi ci guadagnano e noi ci rimettiamo.
«Ovvio che il nanismo non paga, le nostre cooperative ci stanno rimettendo più delle altre. Bisogna fare un salto di qualità. Senza una presenza nella grande distribuzione organizzata – prosegue Brugnera – non c’è futuro».
Il direttore generale di Latte Busche, Antonio Bortoli, è allineato. «La nostra àncora di salvezza sono i formaggi tipici, irripetibili all’estero, ma che non riescono a raggiungere gli scaffali della Gdo. All’estero la distribuzione italiana non c’è; nei nostri ipermercati, invece, le reti di Germania e Francia piazzano quantità enormi dei loro prodotti di fascia medio-bassa». «In Veneto abbiamo tre realtà cooperative che sono gioielli – è lo sguardo esterno di Terenzio Borga, presidente dell’Associazione dei produttori veneti (Aprolav) – purtroppo non dialogano e se siamo ancora fermi a trent’anni fa, nonostante le otto ‘Dop’ che possiamo vantare in Veneto, la responsabilità è anche nostra. Il consumatore apprezza la qualità e i prodotti nazionali, ma non vuole più strapagarli. E di fronte a questo scenario, per recuperare margini, bisogna per forza recuperare in efficienza».
«Massa critica» è l’espressione chiave alla quale fa riferimento anche Fabrizio Stella, direttore generale dell’Agenzia regionale veneta per i pagamenti in agricoltura (Avepa), che qualche idea su come il comparto potrebbe intanto muoversi l’ha messa nero su bianco. La premessa non può non prescindere dalle dimensioni delle tre principali cooperative. Busche, Soligo e Vicentine fatturano assieme 240 milioni (la proporzione ad esempio con Lactalis è presto detta e spietata: il colosso francese, proprietario fra gli altri di Parmalat, Galbani e Invernizzi, produce ricavi per 17 miliardi).
«È fondamentale – sostiene Stella – che questi sistemi di cooperazione, i tre principali ma anche altri, decidano di mettersi assieme e non ritardare più oltre la decisione di aderire ad un progetto di aggregazione. Come? La mia idea è quella della creazione di una holding in cui convergono partecipazioni di aziende di raccolta e trasformazione del latte, di società che si occupano di commercio e marketing e infine di soggetti impegnati in innovazione e ricerca su nuovi prodotti e proteine».
Un altro filone importante dell’attività della progettata holding, per il momento chiamata «Star latte veneto holding», è quello della ‘bioeconomia’, cioè dell’individuazione di fonti di reddito collegate al riuso delle materie di scarto. Creare una bioraffineria, ossia il centro in cui tutti i prodotti primari e secondari delle attività agricole sono processati in modo integrato, per ottenere prodotti ad altissimo valore aggiunto (ad esempio l’essiccazione del siero per il suo reimpiego in segmenti come quello farmaceutico, secondo una linea di business già evoluta in altre parti d’Europa) e dell’autonomia energetica (prioritariamente l’impulso allo sfruttamento delle biomasse).
«Per il momento ne ho parlato solo con Agriform (il consorzio di secondo grado che commercia i formaggi dop, ndr) e il Consorzio agrario lombardo veneto – conclude Stella -. Presto cercherò un confronto più ampio con operatori di alto profilo. Le linee di finanziamento, peraltro, attraverso il Fondo strategico Italiano (Fsi) e l’Istituto per i servizi del mercato agricolo (Ismea), potrebbero già essere disponibili».
Il Corriere del Veneto – 3 giugno 2015