David Quammen*, La Stampa. La pandemia da Covid-19 è stata una vera lezione di velocità: la velocità alla quale un nuovo virus può diffondersi tra gli esseri umani; la velocità con la quale può mietere vittime e azzoppare le economie; la velocità con la quale si possono progettare e produrre i vaccini; la velocità alla quale la disinformazione riesce a mettere a repentaglio la salute pubblica. In mezzo a tutta questa velocità, ve n’è un’altra, di tipo diverso ma che guida tutto il resto, come un motore che fa schizzare le vetture su montagne russe che fanno venire la nausea: la velocità dell’evoluzione virale.
Il Coronavirus, come molti altri virus della sua risma (virus Rna con genomi altamente mutevoli), si evolve molto rapidamente. Si è adattato immediatamente a noi. Adesso sorge dunque una questione cruciale: gli esseri umani e l’ingegnosità umana sapranno adattarsi ancora più rapidamente?
A meno che la risposta non sia sì, dovremo affrontare un lungo e dolente futuro di continue sofferenze. Alcuni esperti considerano che il bilancio della pandemia da Covid possa collocarsi tra 100 mila e 250 mila morti l’anno, solo negli Stati Uniti. Milioni di vite dipendono dunque da una cosa sola: se la scienza umana, la «governance» umana e la saggezza umana riusciranno a battere in velocità l’ingegnosità del Sars-CoV-2, un agente relativamente semplice ma dinamico, formato da quattro proteine strutturali più un genoma Rna.
Gli scienziati oggi possono monitorare i cambiamenti mutazione per mutazione, nel Dna o nell’Rna che racchiude le istruzioni genetiche di ogni creatura vivente, osservando e misurando in che modo alcune di tali mutazioni – le poche che per caso riescono ad avere qualche utilità – si diffondono tra la popolazione. Possono comporre un ritratto in movimento perfino delle creature che si evolvono più rapidamente, come i batteri e i virus. Quando i batteri e i virus diventano patogeni in grado di contagiare gli esseri umani, questa disciplina prende il nome di epidemiologia genomica.
Tra i pionieri della epidemiologia genomica c’è Sharon Peacock, professoressa di sanità pubblica e microbiologia all’Università di Cambridge e direttrice del Consorzio del Regno Unito per la genomica del Covid-19. Si tratta di un gruppo di enti della sanità pubblica e di istituti di ricerca fondato nell’aprile 2020 per sequenziare e analizzare i genomi dei nuovi Coronavirus. A questo punto, il contributo dei laboratori britannici si quantifica in almeno 28 milioni di sequenziamenti di Sars-CoV-2 globalmente noti, circa il 23% del totale mondiale.
Sharon Peacock, e i collaboratori che l’hanno aiutata a far nascere e finanziare questo progetto, hanno capito assai presto che essere informati sul genoma potrebbe essere di importanza cruciale ai fini della reazione a una pandemia. Eppure, sequenziare i genomi e renderli disponibili agli altri scienziati non è sufficiente: questa è genomica senza epidemiologia. L’applicazione delle conoscenze sanitarie deve avvenire a livello della popolazione intera.
«Se si parla di velocità – mi ha detto Sharon Peacock – è di fondamentale importanza pensare all’intero tracciato, dall’inizio alla fine». Quello che intende per «tracciato» è una catena di passaggi fisici (per esempio prelevare un campione da un paziente), processi in laboratorio (per esempio estrarre il materiale genetico virale e sequenziare il genoma del virus) e analisi (interpretare le differenze tra un genoma e l’altro). Tutti questi passaggi dell’iter possono portare a informazioni che influiranno sul trattamento clinico dei singoli soggetti e sulla protezione della popolazione nel suo complesso.
Gli strumenti hardware sono importanti per questo lavoro, come sono di cruciale importanza quelli software. Durante il primo anno della pandemia da Covid-19 una giovane laureata di nome Áine O’Toole ha messo a punto insieme con altri membri dell’Andrew Rambaut’s lab dell’Università di Edimburgo un software denominato «Pangolin» (Phylogenetic Assignment of Named Global Outbreak Lineages), diventato uno dei sistemi di riferimento per collocare i nuovi genomi sull’albero genealogico del Sars-CoV-2, assegnando loro etichette razionali, per quanto non memorizzabili (come B.1.1.7), e contestualizzando le nuove varianti del virus a mano a mano che emergono.
Sono stati Rambaut, O’Toole e i colleghi di laboratorio a individuare e rintracciare la prima variante più importante, oggi nota come Alpha, quando è comparsa nell’Inghilterra sudorientale e si è poi spostata a Londra nell’autunno 2020. Un anno dopo, gli scienziati del Sud Africa e del Botswana, effettuando il sequenziamento di campioni prelevati da alcuni viaggiatori, hanno individuato una nuova variante, chiamata Omicron.
Questa rapida individuazione delle varianti ha un valore inestimabile, ma solo se i dati sono tempestivamente trasformati in linee guida chiare e applicabili. «C’è ancora un divario importante nel trasferimento nella clinica medica», ha detto Sharon Peacock. Tra questi gap ve ne sono anche altri, per esempio rendere facile per il personale sanitario pubblico e medico, non pratico nel sequenziamento, l’uso dei dati e stimolare la volontà degli enti che assicurano l’assistenza sanitaria, come gli ospedali, a finanziare questo lavoro. «Al momento la maggior parte del sequenziamento al di là del Covid-19 è finanziata dalle istituzioni della sanità pubblica ed è finanziata dagli istituti di ricerca».
Le cose non sono cambiate granché dal 2014, quando Pardis Sabeti, genetista computazionale all’Università di Harvard, ha guidato un team di genetisti nella risposta alla terribile epidemia del virus Ebola in Africa occidentale. Hanno sequenziato 99 genomi del virus, prelevando campioni da pazienti in Sierra Leone. La comparazione delle sequenze ha rivelato che tutti quei casi, verosimilmente, erano dovuti a una trasmissione da uomo a uomo, più che a passaggi da animale selvatico a uomo.
L’epidemia in Africa occidentale terminò dopo più di 28 mila casi di Ebola e 11 mila morti, quando l’epidemiologia genomica dimostrò tutto il suo valore, rivelando in che modo si diffondeva il virus. Nel caso dell’epidemia da Covid-19, finora, risultano esserci stati 589 milioni di casi accertati e oltre 6 milioni di morti. La nuova disciplina non riesce a stare al passo con il virus e tanto meno a correre di più, anticipandolo. Sarah Cobey, biologa dell’evoluzione all’Università di Chicago, lavora all’incrocio di immunologia, evoluzione virale ed epidemiologia e ha osservato «falle macroscopiche» nella sorveglianza genetica del Covid-19.
«Anche se abbiamo moltissime sequenze, provengono in modo sproporzionato da poche località», mi ha detto Sarah Cobey. Nel primo anno della pandemia, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Australia e Islanda sono state tra i Paesi che hanno sequenziato un’alta percentuale di casi. I Paesi Bassi e la Repubblica del Congo si sono fatti notare anch’essi per i tempestivi sequenziamenti. A mano a mano che la pandemia si diffondeva nel Pianeta, gli scienziati sudafricani si sono impegnati in un’importante opera di sequenziamento (che si è riflessa nella prima individuazione della variante Beta e poi di Omicron) e le ricerche sono progredite anche in Canada e Scandinavia. Altre località del globo, invece, sono rimaste «punti ciechi», dice Sarah Cobey.
Il fatto triste, ma non sorprendente, è che i Paesi ad alto reddito hanno sequenziato 16 genomi di Coronavirus in più in rapporto ai casi dei Paesi a basso e medio reddito. Il denaro, ma non solo, è un fattore sicuramente d’ostacolo. «Penso che il problema sia una mancanza concreta di leadership scientifica in grado di coordinare questo tipo di raccolta di informazioni», ha detto Sarah Cobey. Pochi Paesi hanno la loro Sharon Peacock o una classe dirigente politica in grado di dare ascolto e sostenere la comunità scientifica.
Il Pianeta ha bisogno di questa leadership, di allargare e di retribuire la sorveglianza dei sequenziamenti del Coronavirus e delle sue varianti, ovunque circoli. Ma ci serve molto di più, come ammoniscono Cobey e Peacock e altri scienziati.
Quel che ci serve sono studi ambiziosi di sieroprevalenza (screening di campioni di sangue per provare infezioni avvenute in passato), che aiutino a capire quanti tipi di contagi non individuati possano esserci stati. Qual è il totale reale dei casi di ogni Paese e nel mondo? Quel che ci serve sono ricerche lungimiranti e ben finanziate su piattaforme vaccinali che possano essere adattate rapidamente contro intere classi di patogeni emersi da poco e non solo sforzi frettolosi per mettere a punto un «booster» contro l’ennesima variante. Ci serve un vaccino universale per il Coronavirus e un vaccino antinfluenzale universale, anche se nessuno dei due – tenuto conto della formidabile capacità di questi virus di evolversi – potrebbe essere realizzabile.
Ancora più semplicemente, quello che ci serve sono vaccini stabili a ogni temperatura e da somministrare senza ago, in grado di contrastare il rifiuto della vaccinazione nei Paesi ad alto reddito e la mancata disponibilità dei vaccini nei Paesi a basso reddito e alte temperature. Quel che ci serve sono farmaci antivirali migliori, anche per i virus rari ma pericolosi (come il Nipah), il che comporta campagne che potrebbero non essere mai redditizie per le società farmaceutiche.
Infine, più semplice ancora, come fa notare Sarah Cobey, quel che ci serve sono investimenti finalizzati a una ventilazione migliore, a un filtraggio dell’aria degli edifici pubblici, per ridurre la diffusione del Coronavirus e di altri patogeni trasportati dall’aria. In questo non c’è nulla di entusiasmante, ammette Sarah Cobey, ma sarebbe importante ed economicamente vantaggioso.
Il viaggio evolutivo di questo Coronavirus è stato lugubre e al tempo stesso affascinante. Indubbiamente, le trasformazioni del Sars-CoV-2 studiate negli ultimi 31 mesi, dal virus originale alle sotto-varianti di Omicron, forniscono uno dei quadri più precisi della rapida evoluzione su scala mondiale in natura. Ecco: in natura e non nelle provette, non nei laboratori, ma dentro di noi. Voi che negate l’evoluzione, fareste bene a prenderne nota.
Anzi, tutti noi dovremmo prenderne nota. Abbiamo la bellezza di 12 milioni di istantanee di questo virus in movimento, il che sarebbe sufficiente – secondo il ritmo standard di proiezione al cinema di 24 inquadrature al secondo – a realizzare un film sull’evoluzione del Sars-CoV-2 lungo 138 ore. Tuttavia, considerato che la biologia dell’evoluzione è una scienza descrittiva e non predittiva, non sappiamo come potrà andare a finire questa storia. Forse, non finirà proprio. E gli epidemiologi genomici, per quanto brillanti, non potranno salvarci da quello che arriverà. Dobbiamo essere noi a salvarci. —
*scrittore e divulgatore scientifico americano, nel 2012 ha pubblicato il saggio Spillover che preconizzava un’epidemia dovuta a zoonosi
Traduzione di Anna Bissanti