Un veneto su quattro ha già ricevuto la dose «booster», l’unica, dai primi studi, in grado di arginare il dilagare della variante Omicron che potrebbe non essere estranea all’impennata di contagi in regione. Anche ieri, non si è scesi sotto i 4.000 nuovi casi individuati grazie a 107.408 tamponi, un’enormità anche perché, di questi, oltre 23 mila sono tamponi molecolari e quindi con una lavorazione più lunga. L’unità di misura sono sempre le 24 ore, per i nuovi contagi, per i tamponi che li scovano, per le vaccinazioni che macinano intorno alle 50 mila dosi al giorno. Purtroppo, quotidiana, è anche la triste conta dei decessi: ventisei solo ieri. Le proporzioni, inclementi, sono sempre le stesse, il dottor Paolo Rosi, a capo dell’Unità di crisi della Regione, lo spiega pacato: dai numeri di ingresso nelle terapie intensive ci aspettiamo un’altra quindicina di morti.
I cerchi concentrici della pandemia sono ormai noti, più diffusione, più casi di ospedalizzazione, altri decessi. A salvare il Veneto da un altro fine anno orribile, simile a quello del 2020, è soltanto lo scudo vaccinale e, soprattutto, il pressing furioso sulla terza dose. La percentuale dei veneti che l’ha ricevuta è ormai al 24,8%, uno su quattro, appunto. Tanto che il confronto con regioni analoghe per popolazione parla chiaro: più di Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, le terze dosi, in numeri assoluti, sono inoculate in Veneto. A ieri erano un milione e 201 mila 949 iniezioni di booster. Il Piemonte si ferma a un milione e 90 mila, l’Emilia Romagna a un milione e 66 mila, la Toscana addirittura non arriva al milione con 916 mila terze dosi inoculate.
Sui quasi 5 milioni di abitanti (4,9 per l’esattezza) di veneti, un over 70 su due ce l’ha già, il 41% degli over 60, il 27,56% dei cinquantenni, il 17% dei quarantenni, il 10 dei trentenni e il 9% dei ventenni. Abbiamo volutamente lasciato a parte i «grandi anziani», gli over 80 su cui c’è un 69%. Eppure nelle Rsa la dose booster è arrivata quasi al 100% degli ospiti, restano, quindi, gli anziani che vivono in casa.
Il numero totale dei contagiati, da inizio pandemia, è arrivato a quota 574.858 fra cui, con i 26 morti di ieri, 12.161 decessi complessivi. Si svuotano un po’ i reparti di area medica e le terapie intensive fra decessi e dimissioni. Il dato di ieri parlava, per l’area medica di 1.079 ricoverati (-175) e per la terapia intensiva di 162 persone (-2).
Un meno due, in rianimazione, che non necessariamente è un dato rassicurante visto che, dai letti di terapia intensiva, si rialzano 3 pazienti su quattro. Il 25%, infatti, muore. Lo conferma lo stesso dottor Rosi commentando la triste conta dei ventisei decessi delle ultime 24 ore. «È la verità – spiega Rosi – un paziente su quattro, fra chi entra in terapia intensiva, non ne esce vivo. Di questi ultimi 26 decessi, gran parte sono morti in reparto perché si tratta di “grandi anziani” o persone affetti da altre patologie gravi. Cinque sono morti, invece, in terapia intensiva. Qui possiamo calcolare che una metà siano over 70 e l’altra metà, purtroppo, soggetti giovani, fra i 50 e i 60 anni. Tutte persone non vaccinate». La mortalità, di fatto, non è aumentata perché con la forte copertura vaccinale, di anziani ne muoiono meno rispetto allo scorso anno. Le persone più giovani, non vaccinate, spesso se la cavano, per così dire. Ma la domanda è: a che prezzo? La risposta, dura, arriva dallo stesso Rosi: «Attenzione, ci sono comunque quarantenni molto gravi e non è affatto detto ce la facciano. Ripeto, se arrivano in terapia intensiva, hanno una probabilità su 4 di non uscirne vivi. In settimana sono entrate in rianimazione circa 70 persone, fra questi ci aspettiamo una quindicina di morti entro la prossima settimana. Per non parlare di chi, invece, fra i quaranta-cinquantenni, sopravvive ma con strascichi e danni permanenti importanti». La tempesta citochimica scatenata dalla malattia può colpire qualsiasi organo. Le conseguenze del Long Covid sono ben note: affaticamento e danni permanenti ai polmoni, fra le altre. «E questa è una tipica conseguenza per i pazienti sui 40-50 anni – specifica ancora il dottor Rosi – ma anche per tacere degli organi aggrediti, basta pensare alla perdita di gusto e olfatto. A volte non passano e i pazienti, sentendo in ogni pietanza un gusto terroso tendono a non riprendere a mangiare». Anche per i più giovani, dai 40 ai 60 anni, il virus colpisce duro se non c’è il vaccino a mitigare l’attacco. L’Unità di crisi della Regione spiega che si parla di degenze lunghissime: un mese in terapia intensiva, poi due-tre mesi in reparto e altri lunghi mesi di riabilitazione mettendo, però, sul conto, danni e problematiche spesso permanenti.