La norma che taglia i rimborsi elettorali contiene una svista che ridurrà di un ulteriore terzo il denaro che sarà erogato nel prossimo triennio. Solo fra Pd e Forza Italia, i partiti più colpiti, si prevedono minori entrate per circa 15 milioni
di Paolo Fantauzzi. Un errore madornale. Una imprecisione imperdonabile. Una svista tale da mettere seriamente a rischio le finanze già dissestate. Senza che nessuno se ne sia accorto, nei giorni scorsi i partiti sono riusciti in un capolavoro autolesionista di rare dimensioni: hanno approvato il decreto che riduce il finanziamento pubblico ai partiti (e che scomparirà nel 2017) ma non hanno inserito una norma che attivi i rimborsi per le elezioni europee (a maggio) e le regionali (tre quest’anno, altre dieci il prossimo). Risultato: nel prossimo triennio non ci saranno da ripartire 136,5 milioni come era previsto ma poco più di 91. In pratica un terzo dei fondi in meno, 45 milioni.
Fino al 2011 il finanziamento pubblico era di 182 milioni ma nell’estate 2012, per dare un segno di sobrietà, i partiti avevano deciso di dimezzarlo, portandolo a 91 milioni l’anno.
La riforma all’esame del Parlamento – approvata con modifiche al Senato in settimana e ora alla Camera per il via libera definitivo – nelle intenzioni prevedeva una progressiva riduzione di questa somma: il 75% nel 2014 (68,25 mln), il 50% nel 2015 (45,5 mln) e il 25% nel 2016 (22,75 mln).
Non avendo attivato i rimborsi relativi alle europee e alle regionali, però, da ripartire nel triennio ci saranno solo 91 milioni e qualche spicciolo.
In pratica, oltre ai tagli che già avevano preventivato, quest’anno i partiti dovranno rinunciare ulteriormente a quasi 18 milioni, nel 2015 ad altri 18,2 milioni e nel 2016 a 9,1 milioni. Totale: 45 milioni in meno.
Un bel pasticcio, non c’è che dire. Non a caso a Palazzo Madama, quando in commissione Affari costituzionali il Pd si è accorto dell’errore fatto alla Camera, ha provato a metterci una pezza. Come? Con un emendamento tecnico firmato dal senatore Giorgio Pagliari, che specificava che “il finanziamento pubblico sarà erogato nell’esercizio in corso e nei tre esercizi successivi”. Ma Nuovo centrodestra (che al Senato ha anche fatto cancellare l’esenzione dall’Imu per le sedi dei partiti) si è opposto, costringendo il Partito democratico a ritirare l’emendamento senza neppure ripresentarlo in Aula.
Una scelta che, a quanto risulta all’Espresso, ha visto un confronto nel Pd ai massimi livelli. Matteo Renzi compreso, il quale per evitare un effetto boomerang dovuto alle critiche che si sarebbero sollevate, ha chiesto di non intervenire forzando la mano. Il senatore alfaniano Andrea Augello l’ha riconosciuto esplicitamente durante il dibattito: “Questo decreto esce di qui con una rinuncia importante e ne voglio dare atto proprio alle forze che ne avrebbero maggiormente beneficiato. Parlo dei colleghi del Pd ma anche di Forza Italia”. E la capogruppo democratica in commissione, Denis Lo Moro, ha rivendicato al suo partito il merito di una simile la decisione: “Quel testo, che aveva natura esclusivamente tecnica, è stato ritirato e mai più presentato per una volontà politica del Partito democratico. E tutto questo perché lo abbiamo deciso noi”.
Resta il fatto che proprio il Pd, insieme a Forza Italia, è il partito più colpito da questo taglio “involontario”. Numeri alla mano, i due partiti maggiori avranno minori entrate per circa 15 milioni a testa. E se la riforma prevede una tutela per i dipendenti dei partiti a rischio lavoro (per la cassa integrazione ci sono a disposizione quasi 35 milioni nel triennio), il grattacapo più serio resta l’indebitamento con le banche, visto che il finanziamento pubblico è sempre stata la principale garanzia sull’esposizione nei confronti degli istituti di credito.
L’Espresso – 17 gennaio 2014