Dalle torte contaminate da batteri fecali, alla carne di cavallo utilizzata senza controlli per preparare polpette, hot dog, lasagne, tortellini e perfino ragù. Fino all’insalata con veleno per topi. Sono solo alcuni dei casi di cronaca che, in questi ultimi giorni, hanno fatto scattare l’allarme tra i consumatori: e la questione, per ora, riguarda soprattutto i controlli effettuati sui prodotti alimentari destinati al commercio, al dettaglio o alla grande distribuzione. Prodotti per i quali già esiste dei precisi obblighi di “tracciabilità”.
E quando invece andiamo a cena in un ristorante? Fino a dove si può spingere la richiesta di “rintracciabilità” degli alimenti? La battaglia è all’ordine del giorno dell’associazione FareAmbiente, che raccoglie oltre 100mila iscritti e si batte da anni per un ambientalismo «ragionevole» e uno sviluppo sostenibile che «non demonizzi l’apporto delle tecnologie. «Finora si parla di tracciabilità dei prodotti destinati ai supermercati – dice il presidente di FareAmbiente, Vincenzo Pepe – mentre al ristorante ti portano solo un menù. È un dato di fatto: nessuno, o quasi, riporta la provenienza dell’olio utilizzato, né ti dice dove sono stati coltivati i podori, se in Cina o in Italia».
Lo stesso discorso vale per il pesce: il consumatore «deve pretendere di sapere dove è stato pescato e in seguito acquistato – incalza il presidente di FareAmbiente -. L’unica eccezione, in Italia, riguarda il vino, visto che già esistono dei protocolli. Perché non si fa altrettanto, ad esempio, per l’olio che consumiamo al ristorante?».
Al ristorante è bassa la «percezione del rischio»
Il problema delle sofisticazioni alimentari, insomma, è enorme. Uno studio di FareAmbiente – sulla ristorazione e l’utilizzo dei prodotti tipici e locali nella
redazione dei menù – ha appurato che nei locali pubblici «la percezione del rischio è molto bassa». «Solitamente – spiega Pepe – il consumatore tende a percepire il gusto e difficilmente si pone domande sulla sua provenienza. Si dà per scontato che i cibi e i prodotti delle trattorie o dei pub, siano già stati controllati e, quindi, sicuri. Invece è importante che il cittadino possa verificare sempre la tracciabilità del
prodotto e privilegiare così quelli nostrani, prodotti dalle nostre terre e sottoposti ai rigorosi controlli dei nostri organi di polizia, piuttosto che cibi sconosciuti e di dubbia provenienza».
La proposta di legge
Per questo, l’associazione FareAmbiente ha preparato un disegno di legge ad hoc. «Abbiamo presentato alla Camera una proposta di legge – affermaPepe- che obbliga gli esercizi commerciali del settore ristorazione, a indicare nel menù, oltre al prezzo, anche la tracciabilità dei prodotti che portano in tavola e i condimenti con cui sono preparati». Anche perché un’ottima bistecca cotta con olio di dubbia provenienza, spiega, può nuocere ugualmente alla salute del consumatore pur essendo la carne di buona qualità e certificata.
Vediamo nel dettaglio la proposta (“Interventi a favore della rintracciabilità e presentazione dei prodotti alimentari destinati alla collettività», relatore Paolo Russo): in primis, si punta a estendere il “campo di applicazione” della Dlgs 27 gennaio 1992, n.109, anche «al modo» in cui gli alimenti «sono serviti presso i ristoranti, gli ospedali, le mense ed altre collettività analoghe». Un punto è dedicato a “Finalità dell’etichettatura dei prodotti alimentari”: l’obiettivo è introdurre divieti e limitazioni anche alla «presentazione» e alla «pubblicità dei prodotti alimentari destinati alla collettività».
Infine, i prodotti alimentari preconfezionati destinati al consumatore e alla collettività devono riportare, tra le altre, le seguenti indicazioni:
a) la denominazione di vendita;
b) l’elenco degli ingredienti;
c) la quantità netta o, nel caso di prodotti preconfezionati in quantità unitarie costanti, la quantità nominale;
d) il termine minimo di conservazione o, nel caso di prodotti molto deperibili dal punto di vista microbiologico, la data di scadenza;
e) il nome o la ragione sociale o il marchio depositato e la sede o del fabbricante o del confezionatore o di un venditore stabilito nella Comunità economica europea;
f) la sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento;
g) il titolo alcolometrico volumico effettivo per le bevande aventi un contenuto alcolico superiore a 1,2% in volume;
h) una dicitura che consenta di identificare il lotto di appartenenza del prodotto;
i) le modalità di conservazione e di utilizzazione qualora sia necessaria l’adozione di particolari accorgimenti in funzione della natura del prodotto;
l) le istruzioni per l’uso, ove necessario;
m) il luogo di origine o di provenienza, nel caso in cui l’omissione possa indurre in errore l’acquirente circa l’origine o la provenienza del prodotto.
Il sole 24 Ore – 11 marzo 2013