Francesco Manacorda. È qui la festa. È qui, anche se venerdì pomeriggio, distante soltanto tredici fermate di metropolitana, è andato in scena lo spettacolo sempre in programma della violenza scatenata senza alcuna giustificazione.
È qui, sul chilometro e mezzo del decumano, la spina dorsale di questa Expo che ancora tre giorni fa nessuno sapeva davvero se sarebbe partita senza inciampare e adesso invece già prende la rincorsa.
È qui la festa della bambina che protesta perché sono le quattro e cinque e la parata di acrobati e clown annunciata per le quattro ancora non si vede, e quella del supermanager che di solito rifugge i luoghi affollati, ma questa volta ha fatto uno strappo alla regola per godersi questo pomeriggio di sole e di curiosità.
E alla fine, senza troppa retorica, è qui anche la festa di un Paese che scopre, quasi a sua insaputa, che ce la può fare. Matteo Renzi all’inaugurazione del Primo maggio ha fatto dell’Expo addirittura manifesto e monumento dell’anti-gufismo militante; i più critici che circolano tra i padiglioni, come un temibilissimo corrispondente di un giornale tedesco che della fustigazione dei nostri costumi nazionali ha fatto hobby e professione assieme, ti spiegano invece che viste le aspettative bassissime della vigilia – appalti sospetti, cantieri in ritardo, progetti originali ridotti ai minimi termini – ora non si può certo parlare di successo, anche se tutto marcia. Nel mezzo sta l’opinione di molti: qualche intoppo, ma tanto entusiasmo; qualche delusione, ma anche e soprattutto meraviglia. Alla fine, e nonostante gli errori del passato, è una partita che si può giocare e vincere.
Quanto l’Expo possa essere un’occasione per l’Italia ce l’hanno ripetuto fino alla nausea. Ma la metropolitana del sabato mattina che riversa sulle banchine un popolo dalle mille lingue dà un significato concreto a quella che finora rischiava di essere solo una formula vuota. Il mondo ci guarda davvero, e noi guardiamo il mondo, in questo chilometro e mezzo di periferia milanese dove adesso si incrociano effluvi di improbabili fritture cinesi e vastissimi programmi: «Prima andiamo all’Iran e poi alla Bolivia». Sarà un segno effimero, ma nell’epoca del selfie totale qui se ne vedono pochi. Molti, invece, gli amici o le famiglie che si scattano foto a vicenda con i padiglioni come sfondo; come a dire che per una volta al centro dell’immagine non c’è il singolo ma qualcosa di più, che la visuale si può allargare. Visitare tutto – è bene saperlo subito – non si può. Almeno non in una sola giornata: file non eterne, ma cospicue in questo primo fine settimana lungo, e poi un’infinità di temi e padiglioni da scoprire. Mangiare in modo gustoso e insolito è invece possibile, anche se non a prezzi popolari: calcolare 30-40 euro a testa.
Il meglio dell’Expo? A un esame sommario e preliminare, il colpo d’occhio generale sull’infilata di costruzioni, disomogenee ma proprio per questo affascinanti; il commovente padiglione del Nepal con le colonne in legno che non saranno mai istoriate perché molti di quelli che avrebbero dovuto finirle sono corsi al loro Paese; l’idea geniale del Brasile che sopra le sue piante ha messo un’enorme rete ondulata dove arrampicarsi, ondeggiando e cadendo: dovrebbe simboleggiare una nazione fluida e dinamica, finisce per dimostrare la voglia di ascesa – non solo sociale – di grandi e piccini. Il divertentissimo non-padiglione olandese, dove furgoncini di hamburger alternativi, frittelle di alghe, una ruota panoramica per spiegare l’idea dell’economia circolare e bambini biondi sull’erba – non quella! – trasportano in una sorta di Amsterdam Anni 70. Ma incanta anche il padiglione del Giappone, sotto il segno di una «Diversità armoniosa» tra uomo e natura e con animazioni che lasciano a bocca aperta. Quei calvinisti degli svizzeri si sono limitati a fare una domanda scomoda: «Ce n’è per tutti?». Per chi visiterà il loro padiglione l’esperienza insolita – che qui non sveliamo – e la risposta. Lo stand dell’organizzazione umanitaria Save the Children informa e commuove e aiuta anche i più piccoli a capire.
Percorrendo il decumano è facile improvvisarsi geopolitici della domenica. Ecco l’Iran che ha astutamente scelto di distribuire bandierine tricolori, per la gioia di bambini asiatici e ragazzini dall’accento romano e il probabile disappunto dei dirimpettai statunitensi. Ecco i padiglioni delle meraviglie, quelli del Golfo che di cibo ne ha pochissimo, ma di petrodollari ancora tanti. Il Qatar – un milione e ottocentomila abitanti, quanto una piccola regione italiana, carne più consumata l’agnello importato dalla Nuova Zelanda – ieri ha avuto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan all’inaugurazione: del resto sono i qatarioti che stanno comprando mezza Europa, dai grandi immobili alle squadre di calcio. Lunghe file anche al padiglione degli Emirati Arabi Uniti, che mostra come pure nel deserto la tecnologia possa aiutare la natura. Tristemente chiusi, invece, alcuni stand africani nei padiglioni tematici: apriranno più avanti, anche se non si sa esattamente quando.
Sul cardo, la via più grande trasversale al decumano, c’è invece molto di quello che il nostro Paese può offrire al mondo: Palazzo Italia incanta tanti per la sua architettura, ma ad alcuni appare troppo vuoto; anche qui qualcosa arriverà in ritardo.
Ma non solo festa può e deve essere questa Expo. Il rischio, gli organizzatori lo sanno, è quello di trasformarsi in una Disneyland del cibo, fatta di assaggi gratuiti e filmati in 3D. Bisogna scavare un po’ sotto la superficie – molti lo fanno – per capire meglio come funzionano le grandi filiere alimentari, o che cosa significhi davvero parlare di «risorse sostenibili». La Coop ha creato con Carlo Ratti, l’architetto torinese che insegna al Mit di Boston, un vero supermercato del futuro. Ci si entra pensando di trovare pizza liofilizzata e pillole di pollo arrosto e invece ecco sugli scaffali il Castelmagno e gli amaretti. Solo che quando li tiri su per metterli nel carrello uno schermo proietta l’origine, il costo, i valori nutrizionali e perfino il consumo di anidride carbonica che quel prodotto ha richiesto. Rimosso in questi primi giorni, al di là delle parole forti di Papa Francesco all’inaugurazione, il tema della fame nel mondo. È un argomento che l’Expo dovrà affrontare, proprio per evitare l’effetto Disneyland. Perché alle feste migliori ci si diverte, ma si conosce anche qualcuno di nuovo.
La Stampa – 3 maggio 2015