Ormai nessuno s’illude più che salvare l’Irlanda possa davvero evitare che il contagio si estenda anche al Portogallo e alla Spagna. Cosa fare per evitare che ciò accada? Nessuno sa offrire risposte convincenti. L’incertezza che ne consegue paralizza i mercati e accelera l’estensione della crisi.
Ogni paese ha i suoi problemi, che sono in parte diversi da quelli del vicino. Ma alla base di questa seconda crisi dell’euro vi sono due problemi comuni. Il primo, più fondamentale, è la separazione tra politica fiscale e politica monetaria.
L’esperienza dei paesi emergenti ci ha insegnato che, quando un debitore sovrano non può indebitarsi nella sua valuta, la sua posizione è molto più fragile. Uno stato che emette debito nella sua valuta può arrivare ad avere un debito pubblico ben superiore al 100% del reddito nazionale, senza che questo causi problemi o instabilità finanziaria. Ma i paesi che s’indebitano in valuta estera tipicamente sono costretti a fermarsi prima. La crisi del 2001 in Argentina, ad esempio, è scoppiata quando il debito pubblico aveva raggiunto il 63% del reddito nazionale.
La ragione di questa maggiore fragilità è che, quando il debito è denominato in valuta estera, la banca centrale non può aiutare lo stato se i mercati si rifiutano di rinnovare il debito in scadenza: stampare moneta non serve a nulla, perché induce una svalutazione del cambio che aggrava l’onere del debito. La consapevolezza che manca questa valvola di sicurezza espone il debitore sovrano alla volatilità dei mercati finanziari. Fino a che i mercati hanno fiducia, il debito è sostenibile e non vi sono problemi. Ma se la fiducia viene a mancare, non c’è più nulla da fare, perché il peso del debito in scadenza può facilmente diventare insostenibile. In altre parole, la banca centrale è un pilastro fondamentale su cui si regge la stabilità di un debitore sovrano. In condizioni normali, non ce ne accorgiamo. Ma l’assicurazione implicita che, in condizioni estreme, possiamo contare sull’aiuto della banca centrale è ciò che rende stabile il sistema.
I paesi dell’area euro possono indebitarsi nella loro valuta, naturalmente. Tuttavia, nessun singolo paese può contare sulla politica monetaria per far fronte a situazioni d’emergenza. Questa era la condizione per consentire alla Germania di mettere in comune la moneta e la banca centrale. La conseguenza inevitabile è che le crisi di fiducia sul debito sovrano sono più probabili, e possono coinvolgere anche paesi che non hanno raggiunto un rapporto debito/Pil particolarmente elevato, come appunto Spagna e Portogallo. Ci eravamo illusi di poter ignorare questo problema. Ora scopriamo che non è così.
Il secondo problema comune a diversi paesi europei è l’intreccio tra crisi del debito pubblico e crisi bancaria. Nel caso della Grecia lo stato era all’origine della crisi. In Irlanda invece i conti pubblici erano sotto controllo fino a poco tempo fa (nel 2007 il debito pubblico netto dell’Irlanda era il 12% del Pil). Ma durante l’estate due eventi hanno capovolto la situazione. Le autorità di vigilanza si sono accorte (troppo tardi) che le perdite delle banche erano molto superiori al previsto. Quasi allo stesso tempo, stava per scadere la garanzia su tutte le passività delle banche che il governo irlandese aveva dato all’apice della crisi del 2008. Il governo ha scelto di rinnovare la garanzia su un ammontare di obbligazioni bancarie pari a più del 30% del Pil. Ma questo era troppo per una finanza pubblica già sotto pressione per la crisi economica. I mercati hanno tolto la fiducia al paese. La lezione da trarre è semplice: non serve salvare le banche se poi ciò mette a rischio la solvibilità del sovrano.
La Spagna sta per essere contagiata anche perché deve affrontare un problema simile. Le emissioni di debito pubblico spagnolo nel corso del 2011 sono stimate intorno a 90 miliardi di euro, ma a questo si somma una cifra analoga di obbligazioni bancarie in scadenza. Anche la Spagna ha avuto una bolla immobiliare smisurata. Le perdite delle banche spagnole sono finora state contenute grazie a una supervisione bancaria molto più severa di quella irlandese. Ma molti dubitano che nei bilanci delle casse di risparmio (le cajas) si nascondono ancora molti problemi. Inoltre, le banche spagnole sono molto esposte al Portogallo. Insomma, può darsi che presto anche il governo spagnolo debba affrontare il problema di come tenere a galla il sistema bancario senza affondare i conti pubblici.
Comprendere la natura dei problemi aiuta a identificare le soluzioni. Per arrestare il contagio occorre muoversi in due direzioni.
Primo, è necessario isolare i problemi nel settore bancario, e farvi fronte con determinazione. Questo vuol dire innanzitutto affrettarsi a riconoscere le perdite o le situazioni a rischio nei bilanci delle banche. Ma, come si è visto in Irlanda, qualche volta il bilancio statale non è in grado di assorbire tutte le perdite. Per questo, occorre costringere sia gli azionisti che i creditori delle banche a sopportare delle perdite, naturalmente salvaguardando i depositi. In pratica questo implica che i governi non possono garantire tutti i cosiddetti “senior bond” bancari.
La decisione più importante da prendere in questo fine settimana drammatico in Irlanda non riguarda pertanto il budget o la tassazione delle imprese, ma se il governo irlandese osa togliersi questo macigno dal collo. Rinnegare l’impegno preso sarebbe un fatto molto grave, che avrebbe un impatto enorme su tutto il sistema bancario europeo, ma forse è l’unica via per salvare il governo dall’insolvenza.
Secondo, è indispensabile ricorrere all’aiuto delle istituzioni europee, per dare alle banche e ai debitori sovrani la liquidità che i mercati certamente faranno mancare nei momenti di maggiore incertezza.
Poiché le banche si finanziano soprattutto con debito a breve, la loro domanda di liquidità è molto grande. Per esempio, il solo sistema bancario spagnolo si è finanziato per centinaia di miliardi a breve sui mercati monetari. Solo la Bce può avere la forza di offrire questa liquidità se i mercati si rifiutano di fornirla. È chiaro che la Bce può fare questo se ha la garanzia che le banche a cui offre liquidità siano solide. Questo sarebbe il compito della sorveglianza, che però ha clamorosamente fallito in più di un’occasione. Basti pensare che solo a luglio il Comitato delle autorità di supervisione europea (Cebs) e la stessa Bce concludevano che solo 7 banche europee su 91 non superavano i cosiddetti stress test.
E i debitori sovrani? In linea di principio dovrebbero rivolgersi alla European financial stability facility (Efsf), il fondo istituito a maggio che può emettere fino a 440 miliardi per aiutare i paesi dell’area euro. Tuttavia, non è detto che queste risorse siano sufficienti, anche per via dell’orizzonte limitato: l’Efsf durerà solo tre anni e non si sa con cosa sarà sostituito alla scadenza. L’alternativa è, anche in questo caso, ricorrere al sostegno della Bce, come è già stato fatto seppure temporaneamente per arginare gli effetti della crisi della Grecia. In situazioni di crisi sistemica, la fiducia dei mercati può essere riacquistata solo se vi è l’assicurazione che la banca centrale è disposta a sostenere i titoli di stato di un paese sotto attacco. E non c’è alcun dubbio che questa ormai sia diventata una crisi sistemica, e non più il problema isolato di uno o due paesi. Ma questo vuol dire sospendere il principio della separazione tra politica fiscale e monetaria, uno dei pilastri su cui è costruita l’Unione monetaria europea. Se non si è disposti a farlo, tuttavia, il contagio rischia di andare avanti.
Ilsole24ore.com
29 novembre 2010