Ilvo Diamanti. Ieri il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Che segnano l’avvio della costruzione europea. Anche se gli accordi originari si limitavano alla Comunità economica e all’energia atomica. Mentre, in seguito, le materie si sono moltiplicate. E anche la Ue si è allargata. Il sentimento critico verso la Ue non si esprime solo attraverso le mobilitazioni nelle strade e nelle piazze romane. C’è, infatti, un’insofferenza diffusa, verso la Ue, che attraversa tutti i Paesi che ne fanno parte. Vecchi e nuovi. Non per caso, i partiti euroscettici o apertamente anti-europei hanno assunto proporzioni sempre più ampie. In particolare, in Francia, ma anche in Italia. E mirano, apertamente, a conquistare il governo. Nazionale. Questo orientamento risulta chiaro nel sondaggio dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza condotto, nei mesi scorsi, da Demos (per la Fondazione Unipolis). La fiducia nella Ue appare, infatti, in declino, quasi dovunque. Ad eccezione dei Paesi che vi hanno aderito più di recente.
Fra quelli monitorati nel sondaggio: Polonia e Ungheria. Nei quali si osservano gli indici di fiducia più elevati, superiori al 60%. Il consenso appare maggioritario anche in Germania (55%), che costituisce il centro e il riferimento della Ue. Ma anche in Spagna, che si è affidata alla Ue per ottenere sostegno alla propria “giovane” democrazia e alla propria incerta economia. Il sentimento europeista si presenta, invece, molto più debole nel Regno Unito, dove si è consumata, di recente, la Brexit. Ma soprattutto in Francia e, da ultimo, in Italia, dove si osserva l’indice di fiducia verso la Ue più limitato: 34%. Meno di metà, rispetto a vent’anni fa. D’altronde, nel nostro Paese, dirsi europeisti è “impopolare”. Fra i simpatizzanti dei maggiori partiti, solo nella base del Pd il consenso alla Ue appare maggioritario. Senza, peraltro, essere plebiscitario. Si ferma, infatti, poco sopra la maggioranza assoluta. Ma fra i sostenitori di Fi, del M5s e, soprattutto, della Lega il sentimento europeista risulta debole. Fra i leghisti: fragilissimo.
Dovunque, i dubbi riguardano non tanto il progetto, ma il percorso: il modo in cui è stato perseguito e realizzato. In Italia, Francia, Germania, Spagna, perfino in Polonia e in Ungheria: oltre 7-8 cittadini su 10 definiscono l’Unione Europea “un obiettivo giusto realizzato in modo sbagliato”. Solo nel Regno Unito si osserva un orientamento più scettico. Il problema è che dovunque è cresciuta la convinzione che si tratti di una via che non porta da nessuna parte.
Infatti, tra i “soci fondatori”, solo in Germania, la capitale di questa Patria incompiuta, la maggioranza dei cittadini ritiene che “il progetto della Ue sia ancora importante e vada rilanciato”. Nonostante tutto. Mentre negli altri Paesi nei confronti dell’Europa prevale il senso di distacco. Soprattutto in Italia e in Francia, per non parlare del Regno Unito, dove è larga la convinzione che si tratti di un ideale ormai logorato. Oppure, semplicemente, in-credibile. Al quale guardare con scetticismo. Così, la convinzione europeista prevale in misura larga soprattutto in Ungheria e Polonia. Gli ultimi arrivati.
Forse perché il tempo non ha consumato l’entusiasmo popolare. Oppure perché l’Unione Europea costituisce ancora un appiglio importante, sul piano economico, ma anche della democrazia.
Gli orientamenti dei cittadini emersi in questo sondaggio, peraltro, spiegano bene il significato della “questione europea”. Che, sessant’anni dopo l’avvio, agli occhi dei cittadini, risulta irrisolta. Un progetto giusto e incompiuto. Realizzato in modo sbagliato. L’Europa: appare, cioè, un “progetto”, ma non ancora un “soggetto”. Si pone, infatti, all’incrocio di diversi progetti e soggetti “nazionali”.
Che si incontrano e si scontrano su basi negoziali. Mantenendo salde le identità e gli interessi “nazionali”. Così, dovunque, i cittadini si dicono europei “nonostante”. In altri termini, non hanno fiducia verso la Ue, ma, in maggioranza, ritengono rischioso uscirne. Non per convinzione. Ma per timore di quel che potrebbe avvenire “senza”. Se, cioè, il percorso unitario si interrompesse. E ciascun Paese se ne andasse per la propria strada.
Così, a mio avviso, la minaccia alla Ue non viene dal dissenso aperto di chi manifesta. Ma dal distacco implicito e silenzioso. Perché la protesta è un segno di riconoscimento. Seppure critico e polemico. Per questo la minaccia non viene tanto dal sentimento anti-europeo, ma dal disincant-europeo.
Repubblica – 26 marzo 2017