Sedici anni di reclusione, pagamento delle spese processuali, risarcimenti ai familiari delle vittime e degli ammalati e interdizione dai pubblici uffici. E’ questo il contenuto della sentenza di primo grado del maxi processo Eternit,
Stephan Schmidheiny, miliardario svizzero di 64 anni, è stato condannato insieme al barone belga Louis de Cartier, 90 anni, per disastro ambientale doloso e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche.
Il dispositivo fa però una distinzione tra gli stabilimenti italiani, dichiarandoli colpevoli per quanto riguarda Casale Monferrato e Cavagnolo (Torino), mentre il reato sarebbe estinto per prescrizione per gli stabilimenti di Rubiera, in Emilia Romagna, e Bagnoli, in Campania. Dopo aver pronunciato la sentenza di condanna per i due imputati, il giudice Giuseppe Casalbore ha letto i risarcimenti decisi per le parti civili e ha elencato tutti i familiari delle vittime per le quali la corte ha stabilito un risarcimento di 30mila euro per ogni congiunto e 35mila euro a testa per gli ammalati. La corte ha poi deciso un risarcimento di 100 mila euro per ogni sigla sindacale, 25 milioni per il comune di Casale Monferrato, 4 milioni per il comune di Cavagnolo e una provvisonale di 15 milioni per l’Inail. Alla lettura della sentenza, alcuni parenti delle vittime sono scoppiati in lacrime.
Per i due, che sono stati alti dirigenti della multinazionale svizzera Eternit, l’accusa aveva chiesto una condanna a 20 anni di reclusione. Il processo è durato oltre due anni e si è articolato in 65 udienze. Ai dirigenti vengono contestate le morti di 2.100 persone e le malattie che hanno colpito altre 800 persone nelle zone degli stabilimenti di Casale Monferrato (Alessandria), Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). Le parti civili che si sono costituite in giudizi sono oltre seimila.
Per la procura di Torino gli imputati hanno “fornito e mantenuto in uso a privati ed enti pubblici materiali di amianto per la pavimentazione di strade, cortili, aie, o per la coibentazione di sottotetti di civile abitazione, determinando un’esposizione incontrollata, continuativa e a tutt’oggi perdurante, senza informare gli esposti circa la pericolosità dei materiali e per giunta – si legge nel capo d’accusa – inducendo un’esposizione di fanciulli e adolescenti anche durante le attività ludiche”. E, infine, il reato di disastro si è consumato anche nelle abitazioni dei lavoratori, proprio per aver omesso di organizzare al lavoro la pulizia degli indumenti, che gli operai portavano a casa, esponendo così familiari e conviventi all’amianto.
Hanno “omesso di adottare i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali, igienici necessari per contenere l’esposizione all’amianto (come impianti di aspirazione localizzata, adeguata ventilazione dei locali o procedure di lavoro atte a evitare la manipolazione manuale delle sostanze e sistemi di pulizia degli indumenti in ambito industriale), di curare la fornitura e l’effettivo impiego di apparecchi di protezione, di sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo sanitario, di informarsi e informare i lavoratori circa i rischi specifici derivanti dall’amianto e le misure per ovviare a tali rischi”.
La sentenza di Torino su Eternit interviene su quello che qualcuno ha definito ‘il processo del secolò, per l’impressionante quantità di vittime coinvolte: oltre 2.200 decessi dovuti all’amianto, 700 malati di asbestosi, oltre 6.000 costituzioni di parte civile e una platea di legali composta da 150 avvocati. L’epicentro della tragedia è stato proprio a Casale Monferrato che con i suoi 1.500 morti, tra lavoratori e cittadini, ha pagato il tributo più alto. E che purtroppo non si è ancora esaurito, visto che l’incubazione del mesotelioma può durare anche 30-40 anni. Ma Casale Monferrato non è l’unica realtà dove si muore di asbestosi, di mesotelioma o di tumore alla laringe per esposizione ad amianto. Secondo i dati Ispesl, complessivamente, in Italia, è possibile dimensionare il fenomeno dei decessi per malattie asbestocorrelate intorno ai 3.000 casi l’anno. E a morire non sono solo i lavoratori, ma anche le persone il cui unico torto è stato quello di abitare nelle vicinanza di un sito contaminato.
Questa mattina in aula, accanto al pool di pm che hanno sostenuto l’accusa (Raffaele Guariniello, Sara Panelli, Gianfranco Colace), c’era il procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli. La maxi aula che ospita l’udienza ha una capienza di 250 posti ed era completamente piena. “Mi fa piacere l’attenzione per il processo – ha detto il giudice Giuseppe Casalbore, entrando in aula e rivolgendosi a fotografi e operatori tv – ma questa è un’aula di udienza, non un teatro”. Poi ha minacciato di allontanare tutti se non fosse calato il silenzio e ha intimato a un giornalista di togliersi il berretto.
Il Fatto quotidiano – 13 febbraio 2012