Dopo la bocciatura della Ragioneria generale dello Stato alle norme che prevedevano deroghe alla legge Fornero, nei giorni scorsi il governo ha fatto un passo indietro. No alle pensioni per i 4 mila insegnanti rientranti nella cosiddetta «quota 96» (la somma di età e anni di contributi), che avrebbero così potuto percepire l’assegno dall’Inps a partire da settembre. Oltre a problemi di copertura, la marcia indietro è stata dettata anche da motivi politici, per l’apertura di un pericoloso precedente nella revisione della riforma del governo Monti che seppur con i suoi limiti (la vicenda «esodati»), rappresenta il pilastro della sostenibilità del sistema previdenziale italiano. È saltato anche il tetto dei 68 anni per la pensione dei professori universitari e dei primari.
Per loro restano in vigore le soglie valide anche per gli altri dipendenti pubblici. Confermate infine le penalizzazioni sulle pensioni di anzianità: l’1% per ogni anno di anticipo rispetto ai 62 e il 2% per ogni ulteriore anno rispetto ai 60.
Dipendenti privati
L’età anagrafica per le pensioni di vecchiaia resta fissata a 66 anni e 3 mesi per gli uomini e 63 anni e 9 mesi per le donne. A proposito di donne va ricordato che la riforma del 2012 ha dato un colpo di acceleratore all’equiparazione con gli uomini, già decisa dal governo Berlusconi, che nell’estate 2011 aveva previsto un percorso che doveva iniziare nel 2014 per raggiungere il traguardo nel 2026, ora fissato al 2018. Dal gennaio 2012, l’età delle donne è salita a 62 anni — soglia alla quale già nel 2013 sono stati aggiunti 3 mesi (per via dell’adeguamento alle speranze di vita) — ed è stata ulteriormente elevata a 63 anni e 9 mesi nel 2014.
Autonomi
Nulla di nuovo per artigiani, commercianti e coltivatori diretti, la cui età di vecchiaia è stabilita a 66 anni e 3 mesi. Penalizzate le donne lavoratrici autonome, per le quali lo scalone del 2012 è stato di 3 anni e 6 mesi: l’età è passata da 60 a 63 anni e mezzo. Limite che è salito a 63 anni e 9 mesi nel 2013 e a 64 e 9 mesi nel 2014.
Dipendenti pubblici
Anche l’età di vecchiaia per i pubblici dipendenti è fissata a 66 anni e 3 mesi, sia gli uomini che le donne. Per anni le dipendenti pubbliche hanno potuto beneficiare di un trattamento agevolato rispetto alle colleghe impiegate nel privato: potevano andare in pensione dopo 20 anni di servizio (15 anni se sposate o con figli). Ora la situazione è capovolta, con l’età pensionabile più alta nel pubblico rispetto al privato. Per gli appartenenti alla Pubblica amministrazione, compresi i dipendenti del settore sanità (Asl) è previsto il pensionamento d’ufficio al compimento dei 62 anni di età. Nel senso che l’amministrazione può unilateralmente mandare a casa chi ha raggiunto i requisiti di pensionamento (contributi e 62 anni di età), dirigenti compresi. Per i medici gli anni sono 65. Tale meccanismo non trova applicazione nei confronti dei magistrati, professori universitari e primari.
Speranze di vita
Dal momento che si vive più a lungo, occorre andare in pensione più tardi. E’ questa la filosofia che ha ispirato la legge del 2010, con la quale è stato deciso che i requisiti anagrafici dovranno nel tempo fare riferimento all’incremento della speranza di vita. In ogni caso, la riforma Monti-Fornero stabilisce che qualora l’incremento dato dalle variazioni demografiche non dovessero arrivarci, a partire dal 2022 l’età del pensionamento non può comunque risultare inferiore a 67 anni di età per tutti.
Pensione anticipata
Con la riforma Monti-Fornero, a partire dal 2012 per ottenere la pensione prima dell’età della vecchiaia non bastano più i classici 40 anni, ma ne occorrono più di 42: nel 2014 sono 42 e 6 mesi per gli uomini e 41 e 6 mesi per le donne. Anche qui è previsto un adeguamento periodico agli andamenti demografici. Questo significa che nel triennio 2016-2018 saranno richiesti 42 anni e 10 mesi (41 anni e 10 mesi le donne).
Penalizzazioni
Al fine di disincentivare il pensionamento anticipato rispetto a quello di vecchiaia è stata introdotta una misura di riduzione. Qualora si chieda la pensione di anzianità prima dei 62 anni di età, l’assegno viene corrisposto, per la quota retributiva, con una riduzione pari all’1% per ogni anno di anticipo, percentuale che sale al 2%, per ogni anno di anticipo che supera i 2. Se si richiede la pensione anzianità dopo aver raggiunto i 42 anni a 60 anni, si riscuoterà, per la quota di pensione calcolata con il sistema retributivo (riferito all’anzianità accumulata sino a tutto il 2011), un assegno decurtato del 2%. Se invece la si richiede a 59 anni di età la decurtazione sale al 4%. Un’apposita disposizione di legge, approvata subito dopo la riforma Fornero, esclude dall’applicazione delle riduzioni percentuali i trattamenti liquidati in favore di coloro che maturano il previsto requisito di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017. Ciò a condizione che il possesso del requisito, derivi da: prestazione effettiva di lavoro; periodi di astensione obbligatoria per maternità, assolvimento degli obblighi di leva, infortunio o malattia; periodi di cassa integrazione ordinaria; astensione dal lavoro per la donazione di sangue; congedi parentali di maternità e paternità; congedi e permessi con riferimento a persone con handicap in situazione di gravità. Nel passaggio alla Camera della riforma Madia era stato approvato un emendamento che escludeva dalle penalizzazioni anche chi raggiungeva il requisito dei 42 anni con l’aiuto della contribuzione figurativa o da riscatto (laurea ad esempio). Dopo la bocciatura della Ragioneria generale, e l’approvazione definitiva del provvedimento, le penalizzazioni restano alle condizioni sopra descritte.
Opzione donna
Un segnale di riguardo verso le donne con alle spalle un lungo percorso lavorativo l’aveva dato la riforma Maroni del 2004. E il decreto “salva Italia” del 2011 ne ha confermato i contenuti. Le donne che vogliono andare in pensione con le vecchie regole — ossia a 57 anni di età con 35 di contributi (58 anni se lavoratrici autonome) — possono continuare a farlo, in via eccezionale sino al 2015, scegliendo un trattamento calcolato interamente con il sistema contributivo, sicuramente meno vantaggioso del sistema «retributivo», con una perdita in termini di pensione stimabile in misura pari a circa il 25-30%.
Domenico Comegna – Il Corriere della Sera – 11 agosto 2014