Il lavoro dei tecnici è in corso, ma l’orientamento sembra già definito. Dopo l’estate il governo dovrà emanare un decreto per rivedere l’età minima necessaria per andare in pensione. In teoria il meccanismo, previsto per legge, non lascia margini di discrezionalità. L’età della pensione è legata alla speranza di vita a 65 anni, cioè il tempo che in media resta da vivere una volta superata la boa dei 65. E a parlare chiaro sono i numeri sul tavolo dei tecnici dei ministeri di Economia e Lavoro, oltre che della Presidenza del consiglio.
La speranza di vita dopo i 65 anni si sta allungando: per gli uomini siamo passati dai 18,6 anni del 2013 ai 19,1 anni del 2016; per le donne da 22 a 22,4 anni. Per questo l’ipotesi è che venga spostata verso l’alto anche l’età della pensione, che potrebbe passare dai 66 anni e sette mesi di adesso a 67 anni. Non subito ma a partire dal 2019. Non sarebbe una differenza da poco. E spingerebbe ancora più in alto quei requisiti previdenziali che già adesso fanno dell’Italia uno dei Paesi dove si va in pensione più tardi. Ma si procederà davvero fino in fondo?
È vero che l’innalzamento dei requisiti previdenziali è un percorso già tracciato e in atto anche in altri Paesi. Ma il nuovo scalino verrebbe formalizzato dopo l’estate, a pochi mesi dalle elezioni politiche. E sarebbe davvero difficile leggerla come una decisione popo-lare. Sia per i lavoratori vicini alla pensione, che vedrebbero spostarsi il traguardo ancora più in là. Sia per i giovani che vedrebbero rafforzarsi quell’effetto «tappo» che già oggi rende molto difficile il ricambio generazionale. Per il momento la pratica è ancora a livello tecnico e l’innalzamento a 67 anni sembra cosa fatta. Ma quando il dossier passerà al livello politico non sono da escludere colpi di scena, come uno stop alla modifica dell’età, oppure un aumento più moderato del previsto.
Già si lavora, però, alle misure di accompagnamento. A partire dalla messa a regime dell’Ape, l’anticipo pensionistico che proprio ieri ha debuttato nella versione social, cioè quella riservata alle categorie deboli, come disoccupati, invalidi e persone che hanno svolto le attività gravose. Al momento l’Ape è una misura sperimentale, valida fino al 2018, anche nella versione volontaria che deve ancora partire e che consentirà l’uscita anticipata con una riduzione dell’assegno previdenziale. Se nel 2019 l’età della pensione salirà davvero a 67 anni, l’Ape sarebbe un efficace strumento di «riduzione del danno», perché consentirebbe qualche uscita anticipata in grado di mitigare l’effetto del nuovo innalzamento generale dei requisiti. L’Ape su base volontaria non ha costi per lo Stato, perché viene «finanziata» con i tagli agli assegni di chi sceglie questa strada. L’Ape social, invece, sì. E non sono trascurabili visto che solo per la sperimentazione sono stati stanziati quasi due miliardi di euro nell’arco di sei anni. Renderla stabile costerebbe. E il problema è quello di sempre, trovare i soldi. (Lorenzo Salvia Il Corriere della Sera – 18 giugno 2017)
Pensioni, gli altri anticipi segnano il passo. Il decreto con le regole attuative per l’Ape volontaria non è ancora arrivato al vaglio del Consiglio di Stato.
di Davide Colombo. A questo punto mancano solo l’Ape volontaria e l’Ape aziendale, ovvero il famoso anticipo finanziario che consente ai 63enni un’uscita anticipata fino a 43 mesi prima del termine normale di pensionamento. Ma il decreto del presidente del Consiglio con le regole attuative di questi strumenti, che prevedono un rimborso ventennale una volta in pensione a carico del beneficiario (o dell’azienda), non è ancora arrivato al vaglio del Consiglio di Stato.
Come nel caso dell’Ape sociale, la norma varata con la legge di Bilancio prevedeva il via dal 1° maggio ma la definizione tecnica del testo attuativo – unico nel suo genere nel panorama europeo – ha preso più settimane del previsto. All’appello manca anche il decreto ministeriale per la semplificazione dei requisiti per il pensionamento anticipato dei lavoratori impegnati in attività usuranti per almeno 6 degli ultimi 7 anni, come previsto nell’ultima correzione introdotta con la «manovrina».
L’Ape volontaria e quella aziendale per essere operative attendono, oltre all’approdo in Gazzetta Ufficiale del Dpcm, anche le firme di Abi e Ania sulle convenzioni che fisseranno gli oneri complessivi del finanziamento. L’indice sintetico di costo, ovvero il tasso annuo effettivo globale (Taeg) sarà attorno al 3,2 per cento. Sarà fisso, come previsto dalla norma. Ma il suo livello sarà aggiornato bimestralmente in virtù degli accordi sottoscritti con banche e assicurazioni che aderiscono a questo programma sperimentale. Dunque i primi «apisti» sconteranno un Taeg più basso, visto che la prospettiva è di tassi in ripresa.
Il Dpcm è atteso dalle imprese che puntano con l’Ape aziendale a un rinnovo degli organici, perché più conveniente dell’isopensione introdotta dalla riforma Fornero del 2012 (legge 92). Con questo strumento, infatti, i datori di lavoro, gli enti bilaterali e i fondi di solidarietà possono intervenire per ridurre (o coprire del tutto) l’incidenza della rata di ammortamento del prestito sulla futura pensione senza oneri contributivi aggiuntivi.
Il ritardo dell’Ape volontaria influisce infine anche sulla partenza della Rita, la rendita integrativa temporanea anticipata pure prevista nell’ultima legge di Bilancio per gli iscritti a un fondo pensione. L’assegno “ponte” previsto utilizzando già a 63 anni il montante accumulato nella previdenza integrativa può scattare infatti solo con la certificazione Inps, basata sui requisiti Ape ( 63 anni di età, 20 anni di contributi, pensione di vecchiaia non più lontana di 3 anni e 7 mesi). (Il Sole 24 Ore – 19 giugno 2017)
19 giugno 2017