Il packaging sta diventando la vera seconda pelle degli alimenti. Basta che sia smart e “attivo”, «ovvero – come spiega Luigi De Nardo, docente di Food packaging material al Politecnico di Milano – abbia funzionalizzazioni per rilascio controllato di antiossidanti naturali, controllo microbiologico e mantenimento termico». L’obiettivo è migliorare la shelf life del prodotto. «La vita a scaffale prolungata – riprende De Nardo – può avere un impatto positivo sull’industria e sulla riduzione dello spreco alimentare». È questo l’assunto principe espresso più volte anche da un ente come l’Istituto italiano imballaggio: proteggere e conservare il cibo aumenta la probabilità di consumo e diminuisce il rischio che l’alimento finisca in spazzatura. La Fao calcola che aumentare l’utilizzo di imballaggi adeguati potrebbe ridurre da subito del 5% gli sprechi di alimenti nei Paesi in via di sviluppo, mettendo così a disposizione 39 milioni di tonnellate di cibo (fonte: Conai).
Insomma, «il food packaging compostabile ad alta barriera» riflette Daniele Antonini, responsabile marketing di Novamont, sarà veramente la prossima frontiera; unito anche a soluzioni di «smorzamento termico – suggeriscono due ricercatori del Cnr, Giovanna Buonocore e Mario Malinconico – o di sviluppo di materie plastiche da fonte rinnovabile, a base di polisaccaridi o di proteine, in grado di essere impiegate in ambiti quali i settori schiume termo-fonoassorbenti, film per imballaggi alimentari e biocompositi».
Intanto, il must è produrre packaging, anche alimentare, dagli scarti agroalimentari. Nei centri di ricerca italiani la corsa è già iniziata, tanto che alcuni player del settore stanno già adottando nuove soluzioni. Ed è interessante notare come i progetti nascano sul campo seguendo la materia prima locale. La catena degli aggettivi si allunga: il packaging diventa anche bio e a km zero.
Succede così che in Puglia il centro di ricerca Enea di Brindisi, guidato da Valerio Miceli, punta a sfruttare gli scarti dell’industria casearia, ricorrendo a batteri per produrre bioplastica Pha–poliidrossialcanoati. L’obiettivo del dipartimento Sostenibilità dei sistemi produttivi e territoriali, in relazione al quale collabora anche la start up EggPlant, è quello di realizzare vaschette per ricotta o yogurt biodegradabili e compostabili. Granarolo ha drizzato le orecchie e segue attentamente i risultati. Due i vantaggi possibili con il progetto chiamato Biocosì: da una parte «si risolvono – spiega il ricercatore Enea – le difficoltà legate agli elevati costi dello smaltimento dei reflui caseari e dall’altra si può tagliare del 23% il costo unitario di produzione del biopolimero». Sul tavolo della ricerca di Miceli più di un milione di euro grazie al bando Innonetwork della Regione Puglia.
In Liguria gli scienziati dell’Istituto italiano di tecnologia sono partiti dall’invenduto del mercato ortofrutticolo di Bolzaneto (Genova) e ritirando broccoli, carciofi e pomodori ne fanno bio-packaging destinato nuovamente allo stesso mercato ortofrutticolo. Il team Smart material guidato da Athanassia Athanassiou, che ha la collaborazione di Ascom, Fedagro e Camera di Commercio di Genova, ha appena presentato a Fruit Logistica, la fiera del settore ortofrutticolo di Berlino, i progressi di questo lavoro. Lo stesso team di ricerca ha anche avviato un laboratorio congiunto con Novacart per la produzione di packaging per dolci in sostituzione del film di poliuretano.
Dalla Toscana arriva una proposta legata a scarti dell’industria ittica: Anna Maria Ranieri dell’Università di Pisa, Centro Nutrafood, è pronta a lanciare un nuovo rivestimento per il packaging per il quale viene utilizzato il carapace dei crostacei. A Parma la Stazione sperimentale per l’industria conserve alimentari, con il progetto Life+BiopacPlus, recupera dalle bucce di pomodoro la cutina, che diventa la base per una vernice bio per isolare i barattoli alimentari. Nel progetto anche l’azienda agricola Virginio Chiesa di Canneto sull’Oglio nel Mantovano, che ovviamente metterà a fattor comune la materia prima.
Parte poi dall’Italia con il coordinamento dell’azienda Tecnoalimenti, ma coinvolge anche Spagna, Danimarca e Finlandia, il progetto BioBarr. Grazie ai finanziamenti Horizon 2020 il team europeo può contare su quasi 4 milioni di euro per sviluppare nuovi materiali a base di biopolimeri Phas (brevettati da Bio-on) con il recupero di scarti agricoli. Gli stessi che a volte finiscono per dare vita, invece, alla carta. La cartiera Favini usa scarti di lenticchie, frutta, lavanda, ma anche olive, caffè e frutta: il marchio Crash è tanto pregiato che Veuve Clicquot usa la carta con questo brand ottenuta dalle bucce dei grappoli d’uva per il packaging delle proprie bottiglie. Lucart, invece, recupera Tetrapak che sono già stati a contatto con alimenti e ne fa… carta igienica. «Con 22 brick in TetraPak da 1 litro – dicono in Lucart – si producono 4 maxi rotoli».
Cristina Ceresa – Il Sole 24 Ore – 20 febbraio 2018