Corriere.it Mascherine e vaccini anti Covid non sono bastati a evitare un importante focolaio che si è verificato nel luglio 2021 in un ospedale in Israele. A raccontarlo è uno studio pubblicato su Eurosurveillance, la rivista europea sulla sorveglianza, l’epidemiologia , la prevenzione e il controllo delle malattie infettive.
Quel che è successo al Meir Medical Center è emblematico: un anziano paziente in dialisi, non testato per Covid al suo ingresso, ma poi risultato positivo, ha contagiato altre 41 persone tra pazienti, personale ospedaliero (che indossava la mascherina) e familiari. Ben 39 dei contagiati (il 96%) erano completamente vaccinati, tutti da oltre cinque mesi.
Questo non significa che i vaccini non funzionano perché come spiega l’analisi a soffrire di più sono stati i pazienti anziani, ospedalizzati e con malattie pregresse mentre medici e infermieri, più giovani, sono rimasti per lo più asintomatici.
Per questo la terza dose di vaccino anti Covid può essere utile per proteggere meglio i pazienti più fragili ma, allo stesso tempo, soprattutto negli ambienti più a rischio, va meglio valutata la gestione dell’aria con una ventilazione meccanica forzata efficiente. E anche le mascherine vanno sempre indossate in modo adeguato, anche tra pazienti ricoverati nella stessa stanza: non bisogna mai abbassare la guardia perché il virus è subdolo e si diffonde facilmente via aerosol.
Il Meir Medical Center dispone di 780 posti letto e la maggior parte delle stanze può ospitare 3-4 pazienti. A partire dal marzo 2020 i pazienti sono stati incoraggiati a indossare la mascherina chirurgica e, sebbene l’indicazione non sia stata sempre seguita alla lettera, durante le visite mediche i dispositivi di protezione individuale erano utilizzati da entrambe le parti. Nei reparti Covid il personale sanitario ha sempre indossato mascherine N-95, visiera, camice, guanti e copertura per capelli.
L’uomo non è stato testato per il Covid perché i suoi sintomi sono stati scambiati per una possibile infezione al flusso sanguigno. Quattro giorni dopo il ricovero, dopo essere stato trasferito un paio di volte dell’unità di dialisi per sottoporsi alla procedura, al paziente è stato diagnosticato il Covid. Subito dopo anche gli i suoi tre compagni di stanza sono risultati positivi e tutti sono stati trasferiti nel reparto Covid.
Il caso indice è stato seguito nelle cure da un operatore sanitario che un anno prima (luglio 2020) era guarito dal Covid e poi era stato vaccinato con una unica dose come dispongono le linee guida israeliane. Questo operatore sanitario ha frequentato anche il reparto che si pensava fosse «Covid free» dove però due pazienti su tre hanno sviluppato sintomi Covid e sono risultati in effetti positivi a Sars-CoV-2.
L’indagine epidemiologica su questo reparto ha identificato un totale di 19 casi Covid: 10 operatori sanitari (compreso quello che si è spostato di reparto e che ha portato il virus in un’altra area dell’ospedale), otto pazienti e un familiare. Ben 238 persone sulle 248 esposte al virus erano state vaccinate. (il 96% dunque erano vaccinate).
Sui pazienti è stata condotta un’analisi filogenetica e quattro casi avevano una sequenza genetica diversa pertanto è stato riconosciuto un unico focolaio composto da 42 casi: 38 completamente vaccinati con doppia dose di Pfizer, uno con singola dose dopo la guarigione dal Covid e tre non vaccinati.
L’età media dei pazienti Covid era 55 anni: 23 pazienti, 16 operatori sanitari e tre familiari. In media dalla fine del ciclo vaccinale all’infezione erano trascorsi tra i 5 e i 6 mesi. Tutto il personale sanitario è rimasto asintomatico o con malattia lieve. Tra i pazienti, età media 77 anni, otto si sono ammalati gravemente, cinque erano in condizioni critiche e fra questi ultimi, cinque sono morti. La popolazione dei pazienti era considerevolmente più elevata degli operatori sanitari e tutti presentavano comorbidità (otto immunocompromessi).
Il tasso di trasmissibilità tra i pazienti esposti al virus ha superato il 23% , tra il personale sanitario il 10% con un tasso di vaccinazione totale molto elevato: 96,2%. Lo studio segnala che molto probabilmente si sono verificate diverse trasmissioni tra due operatori sanitari che indossavano regolarmente la mascherina (uno dei quali utilizzava dispositivi di protezione completi).
«Nonostante la popolazione esposta al virus fosse altamente vaccinata l’infezione si è diffusa molto rapidamente – scrivono gli autori – e molti casi sono diventati sintomatici entro due giorni dall’esposizione , con carica virale elevata». Dal momento che sembra ormai confermato che il vaccino sia meno efficace contro l’infezione da Delta e l’immunità cali nel tempo è allo stesso tempo opinione diffusa che il mix tra vaccini e mascherine possa bastare per proteggersi dalla malattia da Covid. Tuttavia, nel caso del’ospedale di Israele tutte le trasmissioni tra pazienti e personale si sono verificate tra individui con mascherina e vaccinati.
«Non possiamo escludere che le misure di protezione non siano state indossate in modo ottimale, tuttavia, la trasmissibilità nell’estate 2021 differisce dalle nostre esperienze nei 18 mesi precedenti» sottolineano gli autori che concludono: «I dati provenienti da Israele segnalano che la ragione principale dell’aumento dei casi di Covid-19 in estate può essere attribuito alla diminuzione dell’immunità e una terza dose di vaccino, 5 mesi dopo la seconda dose, potrebbe comportare un’inversione di tendenza in particolare negli individui con fattori di rischio per Covid-19 grave».
In effetti i dati di Israele segnalano che la terza dose di vaccino funziona e l’efficacia di Pfizer è risalita al 95%.Il vaccino sembra comunque fornire ancora una protezione (infezione asintomatica) agli individui senza comorbidità.
Che cosa si può fare per migliorare la sicurezza di ambienti ad alto rischio come possono essere gli ospedali? Uno studio ancora in pre print descritto da un articolo su Nature racconta l’efficienza dei filtri HEPA nell’ambiente reale. In un ospedale inglese di Cambridge sono stati montati dispositivi portatili di filtrazione e sterilizzazione dell’aria in un reparto Covid e nell’unità di terapia intensiva: per due settimane sono rimasti accesi e per altre due sono rimasti spenti. I ricercatori hanno raccolto campioni d’aria nei due reparti: nel reparto generale sono state trovate particelle Sars-CoV-2 quando il filtro era spento, ma non quando era acceso. Sorprendentemente il team non ha trovato molte particelle infettive in terapia intensiva, anche con filtro spento. Gli autori spiegano il fenomeno con il fatto che può esserci una replicazione virale più lenta nelle fasi successive della malattia: per questo le misure per eliminare il virus dall’aria potrebbero essere più utili nei reparti piuttosto che in terapia intensiva. Oltre tutto i filtri non difendono solo da Sars CoV-2. Quando infatti i filtri sono stati spenti l’aria di entrambi i reparti conteneva quantità rilevabili di altri agenti patogeni che causano infezioni negli ospedali, come Staphylococcus aureus , Escherichia coli e Streptococcus pyogenes e proprio i filtri li hanno in gran parte rimossi.