Ora che la manovra è legge, appare in tutta la sua ampiezza l’intervento sulle pensioni: una nuova riforma. L’ennesima, da quando nel 1992 il governo Amato varò il primo grande intervento. E chissà se è finita, nonostante che, con le ultime misure, l’età di pensionamento in Italia risulti ormai allineata a quella dei principali Paesi europei, non solo per gli uomini ma anche per le donne. In prospettiva, insomma, viene a cessare l’anomalia di un Paese dove si va in pensione prima. Nel 2050 ci vorranno ben 70 anni per la pensione di vecchiaia, senza distinzioni di sesso. E gli assegni saranno più leggeri.
Il conto lo pagheranno, di nuovo, i giovani, soprattutto gli attuali trentenni con un lavoro precario. Se infatti non riusciranno a raggiungere i 35 anni di contributi per andare in pensione di anzianità, dovranno aspettare la pensione di vecchiaia a 70 anni. Il tutto mentre continuiamo a trascinarci dietro gli oneri dei favori concessi in passato, come, per esempio, le 536 mila pensioni baby ancora in pagamento, regalate fino al ’92 e che ci costano 9,5 miliardi di euro all’anno.
Ma vediamo nel dettaglio come aumenterà l’età pensionabile. La manovra prevede che parta in anticipo di due anni l’adeguamento del requisito d’età alla speranza di vita (prima fissato al 2015). Questo significa che dal 2013 ci sarà un aumento di tre mesi (è già stabilito dalla legge) dell’età per andare in pensione. Poi ogni tre anni ci sarà uno scatto, con aumenti stimati in 3-4 mesi per volta. Risultato: nel 2050 ci vorranno 3 anni e 10 mesi in più di lavoro per andare in pensione rispetto a ora, dice la relazione tecnica al decreto. Se a questo ritardo aggiungiamo la «finestra mobile» decisa l’anno scorso, che vale 12 mesi di attesa per i lavoratori dipendenti (18 per gli autonomi), vediamo che mentre per andare in pensione di vecchiaia nel 2013 ci vorranno 66 anni e tre mesi (61 anni e tre mesi per le donne) nel 2030 saremo già a quasi 68 anni e nel 2050 a circa 70. L’aggravio sarà particolarmente pesante per le giovani lavoratrici, che dal 2020 subiranno anche la seconda novità della manovra: l’aumento graduale dell’età per la pensione di vecchiaia, che arriverà a 65 anni, come per gli uomini, nel 2032. Le donne che andranno in pensione da quell’anno in poi, quando secondo le stime saranno necessari 68 anni e due mesi, dovranno lavorare 7 anni e due mesi in più rispetto a quanto serve ora (61 anni, comprendendo la finestra mobile).
In pratica, le più penalizzate dall’ultima riforma sono le lavoratrici che oggi hanno meno di 51 anni e quanto più sono giovani. Quelle alle quali infatti mancano meno di 9 anni alla pensione di vecchiaia subiscono solo l’adeguamento alla speranza di vita, ma non l’incremento dell’età legale che resta a 60 anni fino al 2020. Le altre, invece, verranno investite tutte, chi più chi meno, dall’aumento che appunto scatta tra nove anni, sia pure in maniera molto graduale: un mese in più nel 2020 e poi a salire fino a sei mesi in più ogni anno dal 2025. Queste lavoratrici potranno uscire prima delle nuove età di vecchiaia solo se avranno cominciato a lavorare presto, accumulando così almeno 35 anni di contributi, che sommati al requisito d’età (62 anni dal 2013) consentono di andare in pensione d’anzianità. Negli altri casi dovranno invece attendere l’età di vecchiaia. Che nel 2023 sarà già di 63,1 anni (compresi i 12 mesi della finestra mobile), salirà a più di 65 anni nel 2027, a 67,2 nel 2030, per unificarsi con quella degli uomini nel 2032 a 68,2 anni e arrivare poi a quasi 70 anni nel 2050.
Con l’equiparazione dell’età per la pensione di vecchiaia delle donne del settore privato si completa il processo di armonizzazione cominciato quest’anno per le dipendenti pubbliche, dopo una sentenza della Corte europea di giustizia. Per le statali, dove è stata decisa un’equiparazione rapida, già dal 2012 saranno necessari 65 anni.
Guardando ai principali Paesi europei, con le nuove regole abbiamo sicuramente superato le età di pensionamento richieste in Francia, raggiunto la Germania (e a regime la supereremo, visto che la riforma tedesca prevede 67 anni per uomini e donne nel 2029) e siamo ormai in linea anche con il Regno Unito (aumento graduale a 68 anni entro il 2046) e con la Spagna (incremento a 67 anni nel 2027). Resta interessante il caso della Svezia, che ha conservato l’età flessibile di pensionamento (la prevedeva anche la riforma Dini del ’95): tra 61 e 67 anni a scelta del lavoratore, con l’assegno che aumenta quanto più tardi si va in pensione. Un sistema, questo, che mira a evitare i possibili effetti negativi di un rigido aumento dell’età pensionabile, come per esempio il calo della produttività connesso all’impiego di quote maggiori di lavoratori anziani e le minori occasioni di occupazione per i giovani.
Enrico Marro – corriere.it – 17 luglio 2011