di Giuseppe Ippolito (Irccs Spallanzani). Fino a un anno fa il termine Ebola non significava assolutamente nulla per i non addetti ai lavori. A partire dall’estate 2014 è diventato sinonimo di catastrofi, tragedie, sciagure. In realtà la malattia è nota da circa 40 anni e la storia, tra il vero ed il romanzato, inizia in Africa centrale con un uomo che durante una escursione, visita una caverna. Pochi giorni dopo, comincia ad avvertire febbre, vomito, diarrea. I sintomi peggiorano nei giorni successivi. Compaiono emorragie multiple.
L’uomo viene trasportato in un ospedale della capitale del Paese, dove muore dopo poche ore. Non prima, però, di aver ripetutamente vomitato materiale emorragico su un medico che lo stava visitando. Molti tra coloro che sono entrati in contatto con lui, sviluppano sintomi simili dopo pochi giorni. E’ questo l’incipit di “The Hot Zone”, di Richard Preston (pubblicato in italiano con il titolo Area di Contagio), un libro che fa una descrizione molto vicina alla realtà.
L’epidemia ancora in corso in Africa occidentale ha la sua datazione ufficiale a marzo 2014, ma sappiamo oggi che i primi casi, non identificati, si erano già verificati a fine 2013 e che il virus circolava già da anni nella zona. Ma Ebola non era mai stata diagnosticata in precedenza in quella zona dell’Africa, per cui era stato ipotizzato che potesse trattarsi di Lassa presente in quell’area o colera, con un conseguente ritardo di identificazione e di risposta. In Guinea la popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno ed ha un accesso estremamente limitato ai servizi sanitari. Sappiamo oggi che il 9% dei campioni di sangue prelevati nel 2004 a Kenema, Sierra Leone era positivo per Ebola. Questo significa che il virus si nascondeva nella foresta pluviale dell’Africa occidentale da anni, forse decenni.
L’analisi genetica suggerisce che il virus dell’Africa occidentale si è staccato dal ceppo madre in Africa centrale almeno 10 anni fa, forse anche 150 anni fa.
Dall’inizio dell’epidemia ad aprile 2015 sono stati registrati un totale di 25.791, con oltre 10.600 decessi. Nella settimana 13-19 aprile sono riportati all’Oms 33 casi confermati di malattia da virus Ebola (MVE), rispetto ai 37 e 30 delle settimane precedenti.
Di questi 21 si sono verificati in Guinea, lo stesso numero della settimana precedente; la Sierra Leone ha riportato 12 casi, 3 più della settimana precedente; la Liberia non ha riportato casi. Ma bisognerà aspettare 42 giorni (che scadono il 10 maggio) dall’ultimo caso per dichiarare la Liberia paese libero dall’Ebola.
Oggi il numero dei casi è sicuramente limitato, soprattutto se si confronta con gli oltre 100 casi a settimana della sola Sierra Leone a gennaio quando l’epidemia era già in discesa.
In ogni caso l’epidemia non può dirsi debellata come ha ribadito l’Oms il 10 Aprile 2015 in occasione della 5 riunione del comitato di emergenza quando ha affermato che l’epidemia continua ad essere una emergenza di sanità pubblica internazionale.
Questo in quanto, i casi continuano a interessare più aree dei paesi colpiti (ancora 8 prefetture in Guinea e Sierra Leone), chiaramente molto meno dei 55 distretti che Leone riportavano i casi all’inizio dell’epidemia in Guinea, Liberia e Sierra. Oggi 39 distretti non hanno riportato un caso per oltre 6 settimane.
Al 16 aprile in Guinea erano stati identificati nella settimana precedente 9 nuovi casi di Ebola vicino al confine con la Sierra Leone a seguito di una campagna di 4 giorni di ricerca dei casi porta a porta che ha raggiunto il 92 per cento delle famiglie. Sono state anche identificate 10 morti sospette di cui solo una è stata confermata come MVE.
Innanzitutto per definire l’estensione di questo evento è necessario chiedersi se un’epidemia di queste dimensioni sia realmente un principale problema di Salute pubblica a livello globale. Ogni anno nel mondo muoiono di tubercolosi 1.300.000 persone, 1.600mila di Hiv e 627mila malaria, con circa 207milioni di nuovi casi ogni anno. Da un punto di vista di numero di casi e di morti potremmo dire che Ebola non è la principale priorità della Sanità Pubblica mondiale. Ma le epidemie causate dai virus delle Febbri Emorragiche Virali, in particolare quelle dovute ai virus Ebola e Marburg, sono tra le esperienze più drammatiche che un medico, ed una comunità intera, possano affrontare. Queste epidemie causano rapidamente centinaia di casi, con una letalità fino al 90%, ponendo a serio rischio di contagio anche gli operatori sanitari stessi. Una tragica esperienza in tal senso è stata quella della morte della pediatra italiana Maria Bonino, avvenuta in Angola nel 2004, mentre lavorava per fronteggiare una epidemia di Marburg che causò 374 casi, l’80% circa tra bambini con meno di 5 anni. O la morte di Matthew Lukwiya, primario di un reparto di Malattie infettive in Uganda, che nel 2000 per primo riconobbe una epidemia di virus Ebola e diede l’allarme, per poi morirne poche settimane dopo. E le Febbri Emorragiche Virali rappresentano solo la punta dell’iceberg: sono, infatti, tra le infezioni virali più tristemente note, e con un maggior impatto emozionale e mediatico.
Per affrontare l’epidemia di Ebola è stato effettuato un ingente investimento organizzativo ed economico, che è cresciuto rapidamente in maniera parallela all’aumento del numero dei casi ed alla percezione del problema nei paesi occidentali. All’inizio di aprile 2014, l’Oms effettuò una richiesta ai donatori di 4,8 milioni di dollari. Le donazioni che l’Oms ottenne superatono la richiesta per un totale di 7 milioni di dollari. Il 1 agosto l’Oms inviò ai donatori internazionali una richiesta di 71 milioni. Alla fine di agosto quando l’Oms pubblicò la roadmap di risposta Ebola stimò la necessità di 490m di dollari. Pochi giorni dopo, all’inizio di settembre il direttore generale dell’Oms e altri alti dirigenti delle Nazioni Unite alzarono la stima fino a 600 milioni. Il 16 settembre il segretariato delle Nazioni unite stimò la necessità di 1 miliardo di dollari per aiuti umanitari. A metà novembre la missione delle Nazioni Unite per la risposta all’Ebola (UNMEER) stimò la necessità di 1,5 miliardi di dollari per la riposta all’epidemia.
L’impegno dei paesi occidentali è che l’investimento per Ebola deve portare a un vantaggio sui servizi sanitari di base ed a ricostruire i sistemi sanitari dei paesi colpiti.
Un aspetto nuovo che desta molta preoccupazione è il rischio di trasmissione sessuale di Ebola dopo che sono state studiate due donne decedute a marzo di quest’anno, una in Liberia e l’altra in Sierra Leone. Le donne non avevano nessun fattore di rischio noto, ma avevano avuto partner maschili che erano sopravvissuti Ebola nel 2014 nei quali il virus potrebbe essere rimasto nel liquido seminale. Materiale genetico di Ebola è stato trovato in un campione di sperma 175 giorni dopo lo sviluppo; il confronto con il virus della donna ha dimostrato la possibilità della trasmissione sessuale. Un aspetto già osservato in precedenza, ma che in una epidemia di grandi dimensioni come questa più di ricercatori avevano in precedenza rilevato, e che potrebbe diffondersi attraverso l’attività sessuale.
Sono stati avviati studi per determinare per quanto tempo il virus rimane attivo nel liquido seminale. Per ora, si è deciso di raccomandare ai sopravvissuti la pratica del sesso protetto e di offrire ai pazienti la possibilità di effettuare il monitoraggio della presenza di marcatori genetici del virus per sapere quando si liberano dall’infezione. Questa epidemia non finisce mai di stupirci e di ricordarci che le malattie infettive continuano a rappresentare un problema significativo per la salute dei cittadini, con ripercussioni economiche e sociali non trascurabili, hanno elevati costi di gestione, ma rappresentano una delle principali realtà sanitarie in cui l’investimento economico riscontra un immediato vantaggio per la popolazione mondiale.
Sanita24 – 26 aprile 2015