Il medico siciliano 50enne che ha contratto il viruso dell’Ebola durante la sua prima missione con Emergency in Sierra Leone, è atterrato all’aeroporto militare di Pratica di Mare a bordo di un velivolo dell’Aeronautica Militare. Assistito da un team di medici, ha viaggiato in una speciale barella chiusa impiegata per il trasporto via aerea di persone colpite da patologie infettive contagiose. Una volta atterrato, è stato preso in carica da un’ambulanza appositamente equipaggiata per il biocontenimento e trasportato all’Ospedale Spallanzani di Roma. “Tutta l’operazione si è svolta come pianificato e secondo le procedure per le quali siamo addestrati ad operare – ha riferito il colonnello Roberto Biselli del team di biocontenimento dell’Aeronautica militare -. In ogni momento è stato possibile assistere, in condizioni di massima sicurezza, il paziente, che è risultato tranquillo lungo tutta la rotta”.
Ha 39 di febbre da domenica, ma non mostra segni di disidratazione cutanea. È vigile e in condizioni stabili, e ha già iniziato un trattamento con un farmaco sperimentale, autorizzato dall’Aifa su indicazione del ministero della Salute. A occuparsi di lui, all’Istituto Spallanzani di Roma, dove è stato ricoverato in mattinata, c’è una task force di 30 esperti, di cui 15 medici e 15 infermieri.
Sono queste le ultime informazioni sullo stato di salute del medico contagiato dal virus Ebola durante la sua missione con Emergency in Sierra Leone. Secondo quanto riporta l’agenzia Agi, il medico è originario di Catania, sposato e padre di due figlie. Specialista in infettivologia e dirigente di un ospedale siciliano, il medico non era mai stato in Africa. Era partito un mese e mezzo fa spinto dal desiderio di assistere le popolazioni che fronteggiano l’Ebola in condizioni difficilissime. Secondo le ricostruzioni di vari quotidiani, ha chiamato la famiglia (che rivendica il rispetto della privacy) per rassicurare moglie e figlie sulle sue condizioni e dare conforto e speranza, dicendosi sicuro che supererà l’infezione.
Il medico italiano, che lavora all’ospedale di Emergency a Lakka, è il ventunesimo caso di Ebola che verrà curato fuori dall’Africa. Nella notte è stato trasportato a Roma dalla Sierra Leone, all’interno di un velivolo Kc 7667 dell’Aeronautica militare, per essere poi trasferito all’Ospedale Spallanzani. Il viaggio è avvenuto in una barella chiusa, denominata “Aircraft Transit Isolators” (Ati) che viene utilizzata specificamente per il trasporto in aereo di pazienti portatori di infezioni altamente contagiose come appunto l’Ebola, la Sars o il colera.
Il trasferimento al nosocomio romano, in grado di assistere i pazienti e che dispone dell’unico laboratorio di massimo livello di protezione certificato e approvato dal Ministero della Salute sul territorio nazionale, è stato previsto con una speciale ambulanza. Lo Spallanzani dispone di una struttura dedicata, che comprende un’area di attesa, una zona dedicata al triage, un’area per l’isolamento dei casi sospetti dotata di 10 posti letto, un’area dedicata alla cura dei malati da 12 posti letto, una zona di disinfezione e un obitorio. Le prime notizie sul medico, uno dei 26 italiani che fanno parte dello staff sanitario di Emergency per contrastare l’epidemia di Ebola in Sierra Leone, sono incoraggianti. «Mi sento di rassicurare la famiglia che il nostro medico sta bene, non ha avuto febbre o altri sintomi durante la notte, stamattina (ieri, ndr.) ha fatto colazione e continua a bere in maniera autonoma, esprimo la mia vicinanza a lui e alla famiglia e assicuro che il governo italiano tutto é al fianco del nostro connazionale», ha spiegato il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che ha anche ribadito che non è previsto un innalzamento del livello d’allarme sul virus nel nostro Paese.
Il virus Ebola è a Rna ed ha un periodo di incubazione variabile da 2 a 21 giorni. È stato scoperto nel 1976 in Congo e nel Sudan del sud e da allora si è ripresentato ciclicamente in Africa, con epidemie più o meno diffuse. L’ultima in ordine di tempo è quella che stiamo vivendo, che ha già causato migliaia di morti ed ha interessato anche venti persone al di fuori del continente. Il medico italiano trovato positivo per il virus Ebola è, infatti almeno secondo quanto comunicato ufficialmente dai singoli stati, il paziente numero 21 che verrà trattato fuori dall’Africa Occidentale.
Nella maggior parte dei casi si tratta di operatori rimpatriati dopo essersi ammalati prestando servizio nei paesi più colpiti, mentre pochissimi sono i contagi avvenuti su suolo europeo o statunitense. Negli Usa sono nove i pazienti trattati per il virus, con un solo decesso. In Spagna sono morti entrambi i missionari rimpatriati, il primo dei quali è stato anche il primo caso di Ebola fuori dai confini africani, mentre Teresa Romero, l’infermiera che si è infettata dopo aver curato uno dei due, è stata dichiarata guarita. Hanno superato l’infezione anche due pazienti in Francia. In Germania sono stati trasportati tre pazienti, uno dei quali è morto. In Svizzera è invece ricoverato un operatore cubano.
Le cure, oltre ai trattamenti per contrastare i sintomi e le emorragie, al momento si basano sul siero sperimentale Zmapp e sul plasma di persone guarite, che contiene anticorpi potenzialmente attivi nel frenare l’infezione virale. Sul fronte della prevenzione, si sta lavorando su due candidati vaccini che dovrebbero giungere alla sperimentazione al più presto: uno è prodotto dall’Agenzia di sanità pubblica del Canada ed è gestito dalla NewLink Genetics, l’altro viene sviluppato da GSK, insieme all’Istituto nazionale per la salute Usa (NIH) e all’azienda biotecnologica italiana Okairos. (Il Sole 24 Ore)
EBOLA, ORA L’ITALIA AFFRONTA IL «PAZIENTE ZERO»
di Claudio Viscoli*. Bene. Adesso siamo in ballo anche noi. Abbiamo il primo caso di Ebola in Italia, un coraggioso collega che opera con Emergency in Sierra Leone. Del tutto inaspettato? No, affatto. Come dibattuto poche settimane fa a Genova, nel Congresso nazionale della Società italiana di malattie infettive, la possibilità che uno dei tanti volontari italiani operanti in Africa Occidentale si potesse ammalare esisteva, perché, specialmente in quel contesto logistico ed assistenziale, il rischio non poteva essere azzerato.
Quello era il vero scenario possibile, non certo l’immigrato disperato in arrivo sulle coste della Sicilia. Il collega verrà prelevato da un aereo dell’Aeronautica e andrà all’Ospedale da sempre più attrezzato in Italia per queste emergenze, e cioè l’Istituto Nazionale di Malattie Infettive “Spallanzani” di Roma. Sia il sistema di prelievo del malato in “zona di operazioni”, sia i colleghi infettivologi dello Spallanzani sono da tempo pronti per l’emergenza. Qualcuno di loro era già stato in zona per prepararsi meglio. La Malattia da Virus Ebola certamente fa paura agli operatori sanitari e mette a dura prova professionalità, coraggio e resistenza fisica. Il malato non può essere avvicinato a meno di due o, forse meglio, tre metri senza indossare pesanti dispositivi di protezione individuale. Verrà ricoverato in camere da cui l’aria non può uscire, munite di anticamera-filtro.
Gli esami di laboratorio, probabilmente ridotti al minimo, verranno verosimilmente effettuati con macchinari dedicati. Non un centimetro di pelle dell’operatore deve essere scoperta. Se esiste il rischio che goccioline di aerosol si sollevino mentre il paziente viene accudito, meglio indossare vere e proprie tute munite di respiratore, in cui l’aria, aspirata dall’esterno, venga filtrata attraverso filtri assoluti, in modo di azzerare il rischio che le goccioline vengano a contato con le superfici mucose. Le operazioni di vestizione e svestizione dei dispositivi di protezione, precedute dalla disinfezione, sono lunghe e minuziose; sempre operare in due, in modo che un collega controlli l’altro, meglio se davanti ad uno specchio, per potersi autocontrollare. Anche se per breve tempo, il virus riesce a sopravvivere anche su superfici inanimate e quindi nulla deve uscire dalla stanza, se non in sacchi appositi e sigillati.
Secondo i dati dell’OMS, quasi 15000 persone hanno contratto Ebola in Africa Occidentale, con oltre 5000 morti, ma i dati sono sottostimati perché nessuno riesce a tenere una contabilità attendibile, dato il completo collasso delle strutture sanitarie e di controllo in quei paesi. La letalità vera, in quei contesti, si aggira probabilmente attorno al 60%. I casi fuori dei paesi colpiti sono stati pochissimi. Dopo un periodo di incubazione di 12 giorni in media (massimo 21) durante il quale, è bene ricordarlo, il malato non è contagioso, compaiono dolori articolari, mal di testa, febbre. Il malato comincia ad essere contagioso, anche se scarsamente, all’inizio. Nei casi gravi, non sempre quindi, la malattia evolve con vomito, diarrea e, più di rado, emorragie. Il malato perde liquidi e sali sia all’esterno, sia all’interno, del corpo. L’ossigeno fatica ad arrivare ai tessuti. Scende la pressione sanguigna. I liquidi e i sali dovranno essergli restituiti per via endovenosa e la pressione sostenuta, cosa ardua da fare in un contesto africano, ma relativamente facile da noi. Se ciò non accade, o se la perdita è troppo cospicua, i vari organi ed apparati del nostro corpo cominciano a cedere progressivamente, fino a quella che chiamiamo, traducendo dall’inglese, “insufficienza multipla d’organo”.
A questo punto il malato è molto contagioso. Il virus Ebola, a partire probabilmente dall’ormai tristemente famoso “fruit bat” o pipistrello della frutta, come molti altri virus animali si è adattato a vivere nell’uomo, anche se malvolentieri. In principio, negli anni ’70, si temeva che il contagio potesse avvenire per via aerea, come per l’influenza, ma poi, fortunatamente, si capì che avveniva solo per contatto con sangue e fluidi corporei. Da quando lo conosciamo aveva causato epidemie circoscritte, in zone per lo più rurali, dove la possibilità di diffusione era abbastanza limitata. Aveva causato morti, specie tra gli operatori sanitari, ma non appena ristabilito un minimo di controllo sui contatti e adeguate procedure di protezione per medici e infermieri, l’epidemia era stata circoscritta abbastanza facilmente. Questa volta è andata diversamente, quasi certamente per il contesto nel quale si è diffuso: un contesto cittadino, in zone densamente popolate, in presenza di popolazioni in continuo movimento, nell’ambito di un inconsistente sistema sanitario. Tutta la comunità medica infettivologica italiana è vicina ai colleghi dello Spallanzani e al nostro malato. Il nostro sistema viene sottoposto a uno “stress test”, come si usa dire in contesti bancari, ma io sono certo che reggerà alla grande. (*Infettivologo Università di Genova e IRCCS San Martino-IST Genova)
BARELLE USA E GETTA, DOPPI GUANTI E MASCHERINE: “CI SIAMO PREPARATI PER MESI, COSÌ LO CUREREMO”
Un letto, un armadio, un comodino e nulla più. Al primo piano dell’ospedale “Spallanzani”, reparto post-acuzie, la stanza “a pressione negativa” (aria che entra ma non esce, rigenerata 12 volte ogni ora) è pronta ad accogliere il primo malato italiano di Ebola. Qui, nell’Istituto nazionale di malattie infettive che, con il “Sacco” di Milano, è il punto di riferimento per questo tipo di emergenze sanitarie, i telefoni del direttore scientifico Giuseppe Ippolito e del direttore sanitario Andrea Antinori, continuano a squillare ininterrottamente. Oggi parleranno con più cognizione, per adesso aspettano di vedere il paziente: «Quando lo visiteremo capiremo il suo stato di salute e prenderemo i necessari provvedimenti. Siamo pronti a tutto», ostenta sicurezza Ippolito.
I protocolli qui li conoscono a memoria: 57 pagine di un documento aggiornato già tre volte nelle ultime settimane che raccolgono le ”Procedure operative per la gestione di casi sospetti, probabili o confermati e contatti di malattia da virus Ebola”. Dopo mesi di falsi allarmi e una psicosi diffusa, dunque, ora si fa sul serio. La task force che dovrà occuparsi del medico di Emergency sarà composta da una ventina di persone: una quindicina di infermieri e 4-5 medici, divisi per 3 turni al giorno. Saranno loro a mantenere per tutta la durata della degenza i contatti con il primo malato italiano di un’epidemia che, finora, ha provocato oltre 5mila morti e 15mila contagiati, il paziente numero 21 a essere curato lontano dall’Africa.
Tutti sperano che non debba trasferirsi di reparto, che resti lì, al post-acuzie, utilizzato già ai tempi della Sars, e non sia costretto a spostarsi in quello che qui chiamano mamuzzino: confina con la Terapia intensiva e ci vai solo se le tue condizioni peggiorano. Niente da fare, invece, per il mamuzzone , reparto nuovo di zecca da 20 posti letto ad alto isolamento, costruito dalla Protezione Civile ai tempi di Guido Bertolaso e costato 30 milioni di euro. Al momento è ancora chiuso a prender polvere.
Tra i silenziosi vialetti alberati dello “Spallanzani”, i camici bianchi filano via veloci. «Non possiamo dire nulla», precisano. Nonostante la preparazione, si avverte un pizzico di timore. E non solo per la sorte del medico malato. Perché a finire “sotto sorveglianza” nelle prossime settimane saranno ovviamente gli operatori sanitari della task force. Nel documento che elenca le procedure da seguire, ci sono pagine e pagine dedicate alle misure di sicurezza che medici e infermieri dovranno osservare. L’incubo è che si possa replicare quanto accaduto in Spagna, con un’infermiera contagiata (e poi fortunatamente guarita). Per evitarlo, vanno seguite scrupolosamente le 11 fasi di vestizione (tempo richiesto 10 minuti) ma, soprattutto, i 20 passaggi della svestizione (e qui i tempi raddoppiano). Bisogna sottoporsi a un getto di ipoclorito di sodio allo 0,5 per cento e, nel frattempo, rimuovere uno dei due paia di guanti, poi il grembiule, sciogliere le stringhe della tuta e così via, dai copri-scarpe alla mascherina, dalla mantellina ai goggles, gli occhiali di sicurezza, per finire all’altro paio di guanti, l’ultima cosa da rimuovere prima di lavarsi le mani.
È esattamente quello che hanno fatto questa mattina i 14 membri dell’equipaggio del KC 767 dell’Aeronautica atterrato a Pratica di Mare dalla Sierra Leone, che hanno contribuito allo spostamento da “bolla” a “bolla” del paziente: due barelle speciali, l’Ati ( Aicraft transit isolator) e la Sti ( Stratcher transit isolator), incastrate ermeticamente, come se la prima fosse una navicella che si “aggancia” alla stazione spaziale. Una arrivava dall’Africa, l’altra era pronta da ore insieme all’ambulanza dello Spallanzani. È cominciato così, questa mattina presto, con un trasbordo particolarissimo (da una barella all’altra sempre in alto “bio-contenimento”, con 8 uomini in tuta bianca addetti alle fasi di passaggio tra le due “bolle” sigillate) il viaggio più difficile del medico che fino a poche ore fa curava l’Ebola.
Dalla trincea della Sierra Leone, alle “retrovie” dello Spallanzani, ha cambiato ruolo nel giro di poche ore. Con sé, non potrà portare nulla: «Ogni oggetto personale — riporta il protocollo — compreso laptop e cellulare, introdotto nella stanza verrà distrutto nel processo di disinfezione ». All’esterno comunicherà con un interfono. Per il resto, dai rifiuti alla biancheria agli strumenti monouso, tutto verrà chiuso in doppi sacchi di plastica, infilato in contenitori disinfettati e portato ogni giorno all’incenerimento. (Repubblica)
25 novembre 2014