Ebola è una parola che fa paura, ma una delle poche certezze dell’epidemia è che non comporta rischi a tavola. I prodotti alimentari consumati al di fuori del continente africano non hanno alcuna responsabilità nella propagazione del virus, diffuso in quattro nazioni (Guinea, Congo, Sierra Leone e Liberia) e da pochi giorni approdato in Spagna, Stati Uniti e Germania. Una cosa deve essere chiara, alle nostre latitudini, la malattia viene trasmessa attraverso il contatto con i fluidi corporei di persone già ammalate. Diversa è la situazione in Guinea dove l’origine dell’epidemia è da ricondurre a una malattia trasmessa da animali della filiera alimentare. L’epidemia si è diffusa facilmente in questi paesi per l’abitudine delle comunità rurali di affidarsi alla caccia per assicurarsi un adeguato apporto di proteine animali.
Il primo contatto del virus con l’uomo viene attribuito al contatto tra un bambino e un pipistrello infetto, che ha dato il via alla malattia. Altre persone che hanno esposto le mucose (bocca, naso, occhi, vagina) o ferite aperte al contatto con i fluidi del malato (muco, sangue, lacrime, saliva, vomito e feci) sono state contagiate.
Il contatto tra uomo e pipistrello o altri animali come antilopi, pipistrelli, roditori e volpi è piuttosto diffuso negli Stati falcidiati dall’Ebola: come conferma uno studio pubblicato su Biological Conservation. Dall’indagine, condotta su 577 ghanesi cacciatori, fornitori e consumatori. Lo studio rivela che in queste areee il consumo di carne di pipistrello è molto diffuso – per ragioni di gusto e di relativa convenienza economica – anche se ancora nonostante l’epidemia manca la consapevolezza dei rischi correlati. «Non è facile ridurre al minimo le insidie per queste popolazioni – afferma Marcus Rowcliffe, ricercatore all’Istituto di zoologia di Londra e co-autore della pubblicazione – la caccia è estremamente diffusa in alcuni momenti dell’anno e risulta meno impegnativa rispetto alla gestione quotidiana e continuativa di un allevamento di animali domestici». Lo studio ha svelato anche le principali modalità di cattura e consumo degli animali, la maggior parte dei quali appartiene alla specie Eidolon Helvum: noti come pipistrelli della frutta paglierino. Una larga parte della popolazione, soprattutto nelle comunità rurali, entra in contatto con il sangue di questi animali essendo consumati crudi, affumicati, alla griglia o cotti nelle zuppe.
L’ospite naturale dell’Ebola è sconosciuto, ma è ormai certo che l’infezione colpisce i mammiferi: scimmie e maiali compresi, come conferma un’indagine epidemiologica compiuta nelle Filippine nel 2009. Esiste dunque un rischio sanitario legato al consumo di alimenti di origine animale? In Africa sicuramente sì, alle nostre latitudini il rischio è pressoché da escludere: non essendoci importazione di queste carni dai paesi coinvolti. Ciò nonostante, per evitare pericolose derive, la Commissione Europea ha dato mandato all’Efsa (Autorità europea per la sicureza alimentare) di verificare l’eventuale esistenza di traffico illegale di carne selvatica, proveniente da africani residenti in Europea. Per molti di loro queste pietanze continuano a essere una prelibatezza a cui è difficile rinunciare.
Non si spiegano altrimenti i dati raccolti in Svizzera tra il 2008 e il 2011 e pubblicati su Scientific and Technical Review, secondo cui la quantità di carne illegalmente importata equivaleva a 5,5 tonnellate, con l’1,4% di selvaggina. Altri numeri, relativi al 2010 e raccolti monitorando gli ingressi avvenuti attraverso l’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, hanno stimato l’importazione di 270 tonnellate di carne potenzialmente contaminata e arrivata dall’Africa: con la Repubblica Centrafricana, la Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire) e il Camerun in testa nella speciale classifica degli esportatori. Toccherà dunque alla massima autorità europea in materia di sicurezza alimentare verificare l’esistenza di un simile traffico negli ultimi 10 mesi. In attesa di questa valutazione, che dovrebbe arrivare entro la fine ottobre, occorre ricordare che la cottura del cibo (70 gradi al cuore del prodotto) è in grado di distruggere il virus dell’Ebola.
Fabio Di Todaro – Il Fatto alimentare – 19 ottobre 2014