«Stiamo affrontando il virus Ebola a mani nude». È letterale Melvin Korkor. Si riferisce ai guanti di gomma, usa e getta, che non ci sono. Lui, uno dei 51 medici liberiani che si occupa di una popolazione di oltre 4 milioni di abitanti (solo la Tanzania è messa peggio della Liberia nel rapporto medici-abitanti). Lui, sempre in prima linea contro uno dei virus più letali tra i tanti che decimano la popolazione africana, è uno dei pochi sopravvissuti. Contagiato curando, ha visto morire il suo «maestro» in un letto accanto a lui, per tre giorni ha bevuto un litro d’acqua ogni ora: 24 litri al giorno. Poi finalmente quei brividi sono scomparsi. È sopravvissuto, ma ora ha paura Melvin Korkor. Ha ragione. Da martedì scorso, in Liberia, il virus maledetto ha ucciso 36 operatori sanitari tra medici, infermiere, volontari.
E l’epidemia non sembra dare segni di resa. Miete vittime da circa otto mesi e forse sarà ancora da emergenza tra altrettanti mesi. Guinea, Sierra Leone, Liberia, Nigeria. Invece di essere bloccato, il virus si estende. La Costa d’Avorio e il Kenia hanno chiuso le frontiere con i Paesi colpiti. Medici e infermieri scappano dai pochi ospedali, scioperano, chiedono garanzie minime. E dilagano le altre malattie, dalla malaria alle varie meningiti, dal morbillo al tifo, e aumenta la mortalità soprattutto in neonati, partorienti e bambini.
Anche al Phebe Hospital di doc Korkor, i pochi sanitari scampati hanno incrociato le braccia. Vogliono guanti di gomma, occhiali di sicurezza, tute protettive, assicurazioni sulla vita e un aumento di stipendio di almeno cinque volte. Attualmente i medici prendono poco più di 5 dollari al giorno, le infermiere molto meno. E i farmaci? Non li chiedete? «Antidolorifici sì, medicinali per i sintomi. Non ci sono. Se mancano i guanti di gomma, pensate i farmaci… ». E quello nuovo che sembra aver salvato due medici americani contagiati? Korkor si irrigidisce: «Mi sono rifiutato di farmi curare con quel siero, di fare la cavia. Non è etico somministrare ciò che non è stato ancora approvato dall’Fda (l’agenzia dei farmaci americana, ndr )».
L’Oms soltanto ora ammette di aver sottovalutato il problema. Ebola si conosce dal 1976, ma prima colpiva solo in aree ristrette, in campagna, e si spegnava rapidamente. Ora è tutto diverso. Incurabile, letale fino all’80% di chi ne resta colpito. All’inizio sembra malaria. Fino a quando non manifesta i sintomi, non sembra contagiare. Poi è un crescendo (sangue dagli occhi, dal naso, dalla bocca) e i morti sono i più virulenti. Il preparare le salme per i funerali è fonte di contagio, ma nei villaggi rurali non si rinuncia ai riti ancestrali. Sangue, saliva, latte materno, vomito, feci e urina le via di contagio. L’ultimo bollettino Oms sembra quello di una guerra: 1.145 morti su 2.127 casi confermati. «Non abbiamo mai visto una cosa del genere prima, l’epidemia ormai non riguarda più soltanto i villaggi di campagna, ma anche città come Monrovia che ha più di un milione e 300 mila abitanti. E la megalopoli nigeriana Lagos», ammette la direttrice di Medici senza frontiere (Msf) Joanne Liu.
In Liberia, dove la corruzione è di casa, all’inizio si è anche pensato che Ebola fosse un’invenzione per avere più aiuti in denaro. Aiuti arrivati, ma di guanti di gomma nemmeno l’ombra. Proprio nel Paese degli alberi della gomma. Così Melvin Korkor si fasciava le mani in sacchetti di plastica per trasportare i bambini. Poi il contagio. Con il suo staff si occupò di una trentenne arrivata in ospedale con un forte mal di testa. Cinque infermieri, un tecnico di laboratorio, una donna del posto la curarono con le mani nude. In poche settimane tutti morti. La donna con il mal di testa, si è scoperto dopo, aveva Ebola. Korkor si infettò. «Ma poteva accadere ovunque — racconta —: basta una stretta di mano, l’asciugare il sudore… ». Viene trasferito nella capitale: «Fui ricoverato in uno stanzone che puzzava di candeggina, sangue e vomito. La maggior parte dei pazienti erano sanitari. Accanto a me un moribondo. Era Samuel Brisbane, il mio “maestro” di specialità. Un filo di voce: “Figlio mio, anche tu qui?”. Il giorno dopo morì». Ucciso dal maledetto virus del pipistrello.
Guarda il reportage “Ebola. Nel cuore dell’epidemia” di un fotografo di Getty Images, John Moore, che ha sfidato l’epidemia per raccontare ciò che sta succedendo
Mario Pappagallo – Corriere della Sera – 17 agosto 2014