di Alessandro Gilioli. Il taglio minimo dei buoni pasto cartacei è di 5,29 euro, mentre il voucher costa 10 euro l’ora, per un salario netto di 7,50 euro. È anche per questo, probabilmente, che alcuni individui (mi rifiuto perfino di chiamarli imprenditori, per rispetto di quelli che lo sono veramente) hanno deciso di usarli come stipendio. No, non oltre allo stipendio: proprio come paga, senza nient’altro. Niente soldi. Ovviamente, niente contributi. Solo buoni per mangiare.
È l’ultimo, grottesco, effetto del dumping salariale e di diritti a cui assistiamo da alcuni decenni. Si è iniziato con i Co.co.co. e gli interinali (pacchetto Treu, 1997), si è passati ai somministrati, agli intermittenti, ai co.co.pro e ai primi voucher (legge Biagi, 2003), si sono quindi ampliati a dismisura i contratti a termine (decreto Poletti, 2014) e quindi estesi all’infinito i voucher stessi, rendendo nel contempo tutti gli altri licenziabili, demansionabili e telecontrollabili (Jobs Act, 2015).
A proposito di voucher, è interessante quello che sta succedendo: sintetizzato dall’head hunter Osvaldo Danzi quando dice: «Si licenzia con il Jobs Act per assumere con i voucher». Al Carrefour di Massa i dipendenti a termine hanno appena ricevuto la lettera in cui si spiega loro che il contratto non verrà rinnovato, ma potranno continuare a lavorare all’ora: senza ferie, senza malattia, senza alcun congedo di gravidanza né altro. Quest’estate in Liguria uno stagionale su due sarà pagato a voucher. In Veneto l’edilizia ormai assume quasi solo così.
I difensori del voucher sostengono che, d’accordo, nei voucher non ci sono ferie o malattia, ma almeno si pagano i contributi Inps: peccato che, in media, un lavoratore voucher per avere un assegno pensionistico da 673 euro mensili dovrebbe farsi 126 anni di prestazioni a chiamata, a circa 150 anni d’età.
Non è strano che con un percorso così si sia arrivati a pagare la gente in buoni pasto. Del resto, in Asia ho visto fabbriche tessili in cui lo stipendio consiste in un piatto di riso a pranzo e a cena più la branda accanto al telaio, per dormire: direi che siamo sulla buona strada.
Il meccanismo è, semplicemente, quello descritto da un vecchio proverbio popolare: l’erba cattiva scaccia quella buona.
Vale a dire che ogni cambiamento dei rapporti di forza a danno del più debole ne porta altri con sé, di conseguenza. Mentre è falso – storicamente falso – il principio che hanno cercato di farci bere in questi anni, cioè che togliere diritti ad alcuni serva per darne di più ad altri. È il contrario, esattamente il contrario: togliere diritti agli uni – chiunque siano – è funzionale per toglierli agli altri. Rendere licenziabili gli operai non avvantaggia i pony express, ma rende solo più forte chi stipendia gli uni e gli altri. Pagare a voucher i camerieri non avvantaggia i raccoglitori di pomodori. E così via all’infinito.
Un paio di settimane fa Matteo Renzi ha ribadito la sua contrarietà a qualsiasi forma di reddito minimo, in particolare riferendosi alle due proposte di legge fatte dalla sinistra e dai Cinque Stelle.
Immaginandolo in buona fede, suppongo che questo suo convincimento sia frutto di una cultura competitiva e lavorista – molto anni ’80 del Novecento, per la verità: ma insomma non deliberatamente finalizzata a difendere gli interessi dei più forti a danno dei più deboli, a difendere il dumping, la corsa verso il basso di salari e diritti.
L’effetto concreto di questo rifiuto, tuttavia, è proprio quello: assecondare il dumping.
Perché in un contesto strutturale e tecnologico in cui il lavoro è rarefatto, esternalizzato e molecolarizzato, solo un reddito minimo metterebbe la società in grado di fermare questa corsa verso il basso di salari e diritti. Perché metterebbe le persone più deboli in condizione di rifiutare di essere sottostipendiate, salariate a voucher, pagate in buoni mensa, private di ogni diritto.
Insomma, costringerebbe a fermare una deriva anche per gli altri, anche per chi il reddito minimo non lo riceve.
Ah, probabilmente contribuirebbe anche a dare una svolta sociale in un momento in cui mezza Europa si sta rivoltando contro le élite e l’establishment. Ma forse chi ne fa parte è troppo stupido – o troppo avido – per capirlo.
Da L’espresso – 15 luglio 2016