di Gianni Trovati. «Il Governo si impegnerà a trovare nuove strade» dopo la bocciatura costituzionale del contributo di solidarietà sulle pensioni più alte, per soddisfare «le esigenze di creare più uguaglianza nel Paese» anche «cercando di intervenire nel campo, sia pur limitato, delle pensioni». La Consulta però ha negato la possibilità di trattare le pensioni in modo diverso dai redditi da lavoro, «quindi il Governo cercherà senz’altro di vedere quali strumenti adottare per non andare incontro a quel pericolo di discriminazione di cui parla la Corte», evitando «che si discriminino in modo eccessivo redditi da pensione con redditi di altra natura, che anch’essi potrebbero essere molto elevati e che anche questi dovrebbero essere limitati».
Parola del sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali Carlo Dell’Aringa, che con queste parole ha risposto all’interpellanza urgente proposta dal deputato Pd Andrea Giorgis per conoscere le iniziative che il Governo intende assumere dopo lo stop costituzionale alla tagliola sulle pensioni.
Le vicissitudini dei vari contributi di solidarietà che hanno puntellato molte delle manovre dal 2010 in poi, insomma, non è finita. Il problema sollevato da Giorgis è quello legato alla sentenza 116/2013 con cui la Corte costituzionale ha detto «no» al contributo di solidarietà sulle pensioni superiori a 90mila euro. Con una sentenza gemella (la 223/2012 dell’ottobre dell’anno scorso), la Consulta aveva cancellato dall’ordinamento un contributo simile chiesto agli stipendi dei dipendenti della Pubblica amministrazione che superano la stessa soglia.
In entrambi i casi, a portare la questione sui tavoli dei giudici delle leggi sono stati dei magistrati (un nutritissimo gruppo di Tar per gli stipendi pubblici, le sezioni di Lazio e Campania della Corte dei conti per le pensioni), che hanno ottenuto la dichiarazione di illegittimità costituzionale per una ragione identica: agli occhi della Costituzione (articolo 53), i redditi sono tutti uguali, a prescindere dal fatto che provengano da pensione, rapporti di lavoro privati o impieghi pubblici, e ogni misura fiscale deve essere proporzionale alla «capacità contributiva» del titolare del reddito.
La legge, invece, in questi tempi di continua emergenza finanziaria era intervenuta in modo disordinato, ritagliando diversi «contributi di solidarietà» per ogni categoria: ai dipendenti pubblici chiedeva il 5% della quota di reddito lordo annuo superiore a 90mila euro e il 10% di quella sopra i 150mila, per le pensioni aggiungeva un terzo scalino tagliando il 15% della parte superiore ai 200mila euro e da ultimo, superando la forte riluttanza dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi («mi gronda di sangue il cuore», disse presentando la misura) chiedendo a tutti, compresi i lavoratori privati e autonomi, un 3% lordo e deducibile (e quindi un 1,71% “netto”) della parte di guadagni superiori a 300mila euro annui.
Di tutta la complessa architettura dei contributi di solidarietà, solo quest’ultima tagliola è rimasta in vigore, perché nella sua universalità non distingue i pensionati dai lavoratori, e i dipendenti pubblici dai privati. Soprattutto la seconda bocciatura costituzionale, quella sulle pensioni, ha però creato un’ampia polemica bipartisan, con un fronte che dal Pd arriva a Fratelli d’Italia (molte le prese di posizione dell’ex ministro Giorgia Meloni) e che chiede di tornare a intervenire sulla materia.
Ora il sottosegretario Dell’Aringa conferma l’intenzione di tornare sul tema, per «incidere sulla sperequazione all’interno della spesa pensionistica», senza però limitarsi al solo terreno previdenziale per evitare di inciampare ancora nella Consulta. Per ora non si fanno ipotesi né si indicano numeri, ma qualsiasi intervento deve poggiare su uno strumento obbligato: il «prelievo fiscale», che come spiega Dell’Aringa è il mezzo adatto «per dare al sistema quella progressività che sola può garantire una maggiore uguaglianza dei redditi».
Tradotto? L’idea per applicare un ragionamento di questo tipo potrebbe essere quella di una super-aliquota, che scatti solo sopra una certa fascia di reddito, oppure quella di un ampliamento del meccanismo oggi in vigore per i redditi sopra i 300mila euro, che non è una super-aliquota in senso proprio dal momento che il 3% aggiuntivo chiesto dal Fisco è deducibile dall’imponibile e quindi viene “scontato” del 43%, cioè dell’aliquota che si applica alla fascia di reddito più alta (di qui l’1,71% netto che viene chiesto dal contributo di solidarietà). Il punto, che non ha impedito il riaccendersi della polemica politica dopo la sentenza costituzionale sulle pensioni, è che oggi in Italia a dichiarare più di 300mila euro sono 31.752 contribuenti, cioè lo 0,008% delle persone monitorate dal Fisco.
Il Sole 24 Ore – 29 giugno 2013