Poco si parla di disabilità nonostante il disagio riguardi non solo le tante persone che ne soffrono, ma anche le loro famiglie. Poco se ne parla, di questa popolazione così vulnerabile, ma invisibile, lontana dai riflettori. Fa più notizia la scoperta dei «furbetti» che si spacciano per invalidi.
Numeri della disabilità
Sono 3 milioni 200 mila le persone con limitazioni funzionali stimate dall’Istat nel 2013, in piena crisi economica, in gran parte anziani, 700 mila hanno meno di 65 anni. Le donne sono più svantaggiate, con un tasso doppio rispetto agli uomini. Il tipo di limitazioni varia e si sovrappone nella maggior parte dei casi, evidenziando così la necessità di una forte personalizzazione della cura, di risposte multidimensionali a cui spesso i servizi sanitari e non, non sono preparati. Quasi 2 milioni sono le persone con limitazioni nelle attività quotidiane, difficoltà nel vestirsi o spogliarsi, lavarsi mani, viso, o corpo, tagliare il cibo e mangiare. 1 milione 500 mila ha limitazioni di tipo motorio, 900 mila difficoltà nella sfera della comunicazione, nel vedere, sentire o parlare. La situazione peggiore riguarda però, 1 milione 400 mila persone costrette a stare a letto, su una sedia o a rimanere confinate nella propria abitazione, specie tra gli ultraottantenni e le donne.
Il peso della famiglia
Inutile dire che le differenze territoriali penalizzano molto, ancora una volta il Mezzogiorno. Inutile dire che le differenze sociali sono molto accentuate ed in crescita rispetto al 2005. Nella metà dei casi i disabili hanno risorse scarse o insufficienti. Inoltre un terzo dei laureati disabili è confinato nella propria abitazione, contro la metà delle persone disabili con al massimo la licenza media. Non c’è da meravigliarsi, i disabili sono particolarmente svantaggiati da un punto di vista economico, per due motivi fondamentali: da un lato perché le loro condizioni di salute rendono difficile disporre di un reddito, o di un reddito adeguato, dall’altro perchè necessitano di più reddito dei non disabili, per soddisfare i loro bisogni basilari o comunque per raggiungere una analoga situazione di benessere. Il welfare, i servizi di assistenza pubblica, dovrebbero contribuire a colmare questo gap tra disabili e non disabili, ma generalmente è la famiglia la principale, se non l’unica, risorsa sulla quale i disabili possono contare. Non sono poche le famiglie in cui vive almeno un disabile, l’11,4% in maggioranza con persone che possono farsi carico almeno in parte della cura. Ma nel 40% il disabile vive solo e nel 6% con altre persone con limitazioni funzionali. In questi casi, purtroppo, i servizi non riescono a sopperire. Meno del 20% di queste famiglie ha usufruito di servizi pubblici a domicilio. La carenza assistenziale non è colmata neppure dai servizi domiciliari a pagamento. E così il 70% delle famiglie con disabili non usufruisce di alcun tipo di assistenza domiciliare, né privata né pubblica. Per di più una parte non piccola ha dovuto rinunciare all’assistenza domiciliare non sanitaria o per motivi economici o perché i servizi pubblici non l’avevano ancora concessa: il 15% circa di quelli che vivono soli o in cui tutti i componenti hanno difficoltà funzionali. Se a ciò aggiungiamo che due strutture sanitarie su tre sono impreparate ad accogliere persone con disabilità, come si evince dall’indagine condotta dalla Onlus Spes contra spem insieme all’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni, non possiamo che affermare che abbiamo a che fare con un sistema che ancora non riesce a puntare sulla centralità della persona. Passi in avanti sono stati fatti con i maggiori stanziamenti previsti dal Governo Renzi, ma molta strada abbiamo da fare.
Differenze regionali
La spesa dei Comuni per la disabilità è fortemente disuguale ed è più bassa laddove i bisogni sono maggiori. Si passa da 16.912 euro per disabile investiti in Trentino Alto Adige ai 469 euro in Calabria. Bisogna ridare centralità alla cura, prevedendo percorsi personalizzati e rendendo i servizi inclusivi, sostenibili, di qualità, come chiede la comunità dei disabili. Investire nella cura significa creare nuovi posti di lavoro per il benessere dei disabili. Devono esserci diritti certi ed esigibili in ogni parte del Paese. Le famiglie, non più quelle di una volta, ma quelle di oggi, con pochi figli e le donne sovraccariche di lavoro, e il volontariato, da soli, non possono farcela. Non è una questione di carità, ma di mera civiltà e di rispetto dei diritti dei cittadini, nonché delle Convenzioni dell’Onu.
La Stampa – 4 gennaio 2017