Nel discorso di fine anno il Presidente Mattarella ha espresso grande preoccupazione per le «emergenze che cittadini e famiglie devono affrontare giorno per giorno». Fra queste ha ricordato le «difficoltà che si incontrano nel diritto alle cure sanitarie per tutti. Con liste d’attesa per visite ed esami in tempi inaccettabilmente lunghi».
L’avverbio “inaccettabilmente”, usato dal Presidente, piuttosto desueto nel linguaggio corrente, costituisce un’accusa precisa nei confronti dei responsabili della crisi della sanità pubblica, progressivamente cresciuta negli ultimi anni per mancanza di risorse sufficienti per fronteggiare la domanda. Il Presidente ha poi ricordato che, «quando la nostra Costituzione parla di diritti, usa il verbo “riconoscere”, che significa che i diritti umani, come quello alla salute, «sono nati prima dello Stato».
Nel servizio pubblicato il 14 dicembre scorso “I 45 anni amari del Ssn fra articolo 32 disatteso e iniquità fiscale” avevamo ricordato che i nostri Padri costituenti avevano indicato con molta chiarezza sia i diritti che i doveri dei cittadini e che spiccavano per importanza, fra i primi il diritto alla salute e fra i secondi l’obbligo di contribuire alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva nell’ambito di un sistema tributario informato a criteri di progressività.
A proposito di questo richiamo alla nostra Costituzione, è doveroso precisare che accanto ai “Padri costituenti” erano presenti nell’ Assemblea costituente, eletta per la prima volta nella storia del nostro Paese con il suffragio universale, anche le nostre “Madri costituenti”… È vero che eravamo ancora lontani dalla parità di genere, ma è bene ricordare che le 21 deputate presenti (contro 535 deputati, poco meno del 4%), dettero un contributo sostanziale al dibattito in aula e alla stesura di alcuni articoli fondamentali.
Il “diritto alla salute”, sancito dall’art. 32 della Costituzione (promulgata il 27 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948) costituisce parte integrante dei diritti umani fondamentali internazionalmente riconosciuti: era stato menzionato per la prima volta nel 1946 nella Costituzione dell’ Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), il cui Preambolo definisce il concetto di salute come “uno stato complessivo di benessere fisico, mentale e sociale, e non la mera assenza di malattie o infermità” e inoltre afferma che “il godimento delle migliori condizioni di salute fisica e mentale è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano, senza distinzione di razza, religione, opinione politica, condizione economica o sociale”.
Il riconoscimento di questo diritto da parte della nostra Carta costituzionale era arrivato quindi l’anno successivo a quello dell’Oms e precedeva quello contenuto nella Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata un anno dopo (il 10 dicembre 1948) dall’Assemblea generale delle nazioni unite. L’art. 25 recita : “Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; e ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.
Sul versante dei doveri di ogni cittadino, nel servizio del 14 dicembre sopra citato, avevamo sottolineato come ci siamo sempre più allontanati dal principio di cui all’art. 53 della Costituzione, che mette l’accento sulla capacità contributiva dei cittadini e sul criterio della progressività a cui dovrebbe essere informato il sistema tributario, e che questa situazione è destinata ad aggravarsi con l’entrata in vigore della riforma fiscale, le cui linee sono ormai tracciate dalla Legge delega approvata nell’agosto 2023.
In particolare avevamo richiamato l’attenzione sull’assurda tassazione delle Aziende del Ssn, con imposte dirette che, da una parte erodono oltre 3 miliardi di euro alle risorse destinata alla sanità pubblica, dall’altra costituiscono una grave discriminazione a danno della stessa ed a favore del settore privato, che ne è quasi indenne.
Purtroppo le discriminazioni a favore del settore privato, nel quale non manca certo la “capacità contributiva” e che cresce sempre più a scapito di quello pubblico appaiono, per dirla con l’espressione usata dal Presidente Mattarella, “inaccettabilmente” numerose.
La gramigna della flat tax. In quest’occasione vogliamo invece mettere in luce un’altra anomalia, che ci allontana dal dettato costituzionale, sul versante dei doveri, provocata dal ricorso fatto dal Legislatore nell’ultimo ventennio, a numerose forme di flat tax, cioè di tasse “piatte” con aliquote fisse, indipendenti dal reddito complessivo, della quale beneficiano alcune categorie di contribuenti e che costituiscono una delle ragioni per cui le risorse destinate alla sanità pubblica non sono sufficienti.
Ricordiamo che il criterio della progressività è seguito solo per l’Irpef (con un’aliquota massima del 43% per i redditi oltre 50.000 euro, contro quella del 72% prevista inizialmente dalla riforma fiscale del 1973 per i redditi oltre 500 milioni di lire), per cui riguarda solo i redditi di lavoro dipendente, quelli da pensione e una parte dei redditi da locazione di fabbricati (quelli cioè derivanti da locazione di immobili ad uso commerciale od a uso abitativo nel caso che i proprietari abbiano rinunciato alla “cedolare secca”), e dal reddito delle imprese individuali.
Per tutti gli altri redditi sono in vigore aliquote “piatte”, sostitutive dell’Irpef e delle relative addizionali comunali e regionali (nonché delle imposte di registro e di bollo per le locazioni ad uso abitativo ), che variano dal 10% al 26%.
In concreto, facendo un quadro semplificato, si parte dall’aliquota del 10% sui redditi da locazione immobili ad uso abitativo, con canone concordato, stipulati attraverso accordi specifici fra organizzazioni di proprietari ed inquilini, in comuni con carenze di disponibilità abitative e si arriva all’aliquota del 26% per i redditi da partecipazioni societarie, e investimenti finanziari (Fondi, azioni, obbligazioni); con le due ultime manovre di bilancio è prevista anche la possibilità di affrancare (cioè sterilizzare) le plusvalenze maturate alla fine dell’anno, senza alcun limite di importo, con un’imposta ulteriormente ridotta al 16%; questa possibilità è prevista anche per le plusvalenze maturate su terreni fabbricativi.
Altre aliquote per l’imposta “piatta” che interessano una platea importante di contribuenti, sono quella del 12,5% sulle rendite da titoli di stato ed equiparati e quella del 15% sui redditi da lavoro autonomo ( fino al limite di 85.000 euro di incassi ).
Trattandosi di imposte sostitutive dell’Irpef e delle relative addizionali, i percipienti non possono dedurre alcuna spesa né usufruire di detrazioni di imposta in misura fissa; se usufruiscono contemporaneamente di reddito da lavoro dipendente o da pensioni, eventuali deduzioni e detrazioni potranno essere usufruite nei limiti di queste ultime tipologie di reddito.
Ricordiamo che i redditi assoggettati a Irpef sono tassati da un minimo del 23% fino a 28.000 euro a un massimo del 43% oltre 50.000 euro, oltre le addizionali comunali, che variano da zero a 0,80% (salvo deroghe) e quelle regionali che variano da un minimo dell’ 1,23% ad un massimo del 3,33%; in presenza di gravi disavanzi nel settore sanitario, l’aliquota può essere maggiorata dalle Regioni fino allo 0,30%.
Salta subito agli occhi la discriminazione di trattamento fra chi vive di un lavoro dipendente o della pensione maturata in tanti anni di lavoro e chi vive di lavoro autonomo, ma soprattutto con chi vive della rendita finanziaria o di quella immobiliare; non c’è dubbio che la situazione sia in palese contrasto con due fondamentali principi costituzionali, sia quello dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (art. 3), che quello già citato dell’art. 53 .
In sostanza , non solo la Repubblica, anziché rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini (art. 3, secondo capoverso), ne ha disseminati di nuovi che la rendono più lontana.
Gli autonomi in concordato preventivo e l’ipotesi di un una tantum pro sanità pubblica. La discriminazione non finisce qui: i lavoratori autonomi e le piccole imprese con attività di minori dimensioni potranno usufruire, in determinate condizioni, con un decreto attuativo della riforma fiscale in fase di approvazione, anche di un concordato preventivo biennale, che non prevede accertamenti di sorta, che può legittimare situazioni incompatibili con lo stesso art. 53.
Inoltre, se un Comune o una Regione, nell’ambito delle possibilità previste dalla Legge, decidono di coprire costi straordinari, come ad esempio avviene nelle Regioni che hanno rilevato un disavanzo nella gestione della sanità pubblica, e che deliberano una maggiorazione delle addizionali Irpef, queste vanno a colpire i redditi da lavoro dipendente, da pensione e gli altri pochi redditi che non usufruiscono di tasse piatte , cioè di contribuenti che costituiscono la fascia della popolazione meno abbiente.
Siamo sicuri che questi Comuni o queste Regioni non avrebbero altre strade per recuperare maggiori introiti, evitando di colpire sempre le stesse categorie di cittadini, fra i quali sicuramente quelli delle fasce più deboli?
Non potrebbe essere deliberata, ad esempio, un’imposta straordinaria di tipo patrimoniale, sganciata cioè dal livello del reddito e basata sulla proprietà di beni immobili e mobili, anche per importi modesti, che potrebbe meglio corrispondere ai criteri costituzionali della capacità contributiva e della progressività?
Chi scrive ricorda bene che una cinquantina di anni fa, all’epoca della primi crisi petrolifera e del conseguente periodo di “austerity” (durante il quale nei giorni festivi l’uso delle auto era vietato) venne introdotta un’imposta straordinaria “una tantum” sugli autoveicoli, commisurata alla potenza fiscale. Non si potrebbe ripetere il provvedimento, per raccogliere risorse destinate in modo specifico alla sanità pubblica, con un’esenzione per le auto utilitarie, magari con un’ addizionale alla tassa di circolazione? Basta guardare la composizione e la numerosità del parco auto in circolazione nelle nostre strade per capire quale potrebbe essere l’entità del gettito…
Altro esempio, a livello nazionale, potrebbe essere quello di ripristinare l’Imu sugli immobili destinati a prima abitazione, magari con una franchigia che esoneri quelli di tipo popolare, come già avveniva fino al 2007, quando era in vigore l’Ici, antenata dell’Imu.
Inoltre, visto che l’introduzione della “cedolare secca” sulle locazioni, avvenuto nel 2011 ( IV Governo Berlusconi) ha prodotto in minima parte l’emersione dal “nero” e non ha consentito neanche il calo del gettito delle locazioni già regolarmente denunziate, perché non tornare al passato? Perché il lavoro, sul quale è fondata la nostra Repubblica, deve essere tassato molto più della rendita immobiliare e di quella finanziaria?
E ancora, come provvedimento minimo, un’addizionale, anche temporanea, sulle imposte sostitutive non sarebbe un giusto coinvolgimento di tutti i contribuenti in un sacrificio temporaneo a favore della sanità pubblica?
Queste possibili iniziative non sembrano in contrasto con i principi delineati dalla riforma tributaria in fase di attuazione, e costituirebbero sicuramente un riavvicinamento ai principi costituzionali.
Roberto Caselli – Il Sole 24 Ore sanità