di Lorenzo Salvia. O tutti o nessuno. I dirigenti della pubblica amministrazione dicono no all’obbligo di rendere noto il loro stato patrimoniale. Non si tratta dello stipendio: in questo caso l’obbligo c’è già da qualche anno e nessuno lo contesta. Ma di tutte le altre forme di ricchezza che non vengono dalla busta paga: case di proprietà, automobili, titoli, azioni. L’obbligo di mettere tutto sul sito internet della propria amministrazione scatta tra un mese, il 30 aprile. Ma i dirigenti si oppongono con un doppio ricorso al Tar, una diffida, cioè l’invito formale a non pubblicare nulla. E queste parole di Barbara Casagrande, segretario di Unadis, il principale sindacato dei dirigenti pubblici: «I lavoratori privati non hanno alcun obbligo di questo tipo, perché solo noi dovremmo averlo? Ci vogliono forse scaricare addosso tutte le colpe della corruzione?».
La pubblicazione dello stato patrimoniale dei dirigenti è una delle novità prevista dalla riforma della pubblica amministrazione. Di fatto, i 160mila dirigenti pubblici vengono messi sullo stesso piano dei politici, ministri e parlamentari, che già oggi sono tenuti a rendere noto non solo il loro stipendio ma anche, case, automobili e tutto quanto sia di loro proprietà. L’obbligo, sia per i politici sia per i dirigenti, non riguarda solo il diretto interessato ma anche i parenti stretti: moglie, marito, figli e genitori. Loro, i parenti, possono anche rifiutarsi di farlo ma a patto di spiegarne il motivo.
Un ricorso al Tar è stato già presentato da un gruppo di dirigenti del Garante per la privacy, più sensibili al caso vista la materia che trattano ogni giorno. Nell’atto parlano di «ingerenza» nella «sfera personale degli interessati». Dicono che non può esserci una «automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali». Definiscono «irragionevole» l’equiparazione ai politici. E sottolineano come siano stati «differenziati gli obblighi di trasparenza fra dirigenti e altri dipendenti pubblici, ugualmente a rischio corruttivo». Il punto vero, secondo loro, è questo. Se la trasparenza è un’arma contro la corruzione, perché a pubblicare tutto devono essere solo i dirigenti pubblici e non anche i semplici impiegati? E perché, come dice la sindacalista, non si prevede nulla per i dirigenti delle aziende private?
È vero che i dirigenti pubblici sono pagati con denaro pubblico, cioè di tutti noi. Ma è anche vero che nel patrimonio possono entrare cose che non hanno nulla a che vedere con il lavoro, lecito o illecito che sia, come un’eredità o i beni di famiglia. Sul ricorso dei dirigenti del Garante per la privacy, il Tar del Lazio si pronuncerà soltanto il 17 ottobre. Quando l’obbligo sarà scattato da mesi. Per questo è in arrivo un secondo ricorso urgente, questa volta del sindacato, insieme all’invito formale a non pubblicare nulla. Una mossa che si basa anche su quanto scritto dall’Anac, l’autorità anti corruzione. Nelle linee guida preparate per mettere a punto la procedura, l’ufficio guidato da Raffele Cantone ha parlato di «risultato, in termini di trasparenza, certamente trascurabile». Aggiungendo però che i «titolari di incarichi dirigenziali sono tenuti a osservare tutti gli obblighi». Qualche dubbio, insomma, ma si procede.
Di fatto, tra governo e dirigenti pubblici, siamo arrivati al secondo round. Il primo lo hanno vinto i dirigenti, con la bocciatura da parte della Corte costituzionale di quel pezzo della riforma che introduceva anche per loro la licenziabilità. Stavolta vedremo. (Vai alla fonte)
IL Corriere della Sera – 22 marzo 2017