Via libera ieri in Consiglio dei ministri a cinque decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione: dirigenza pubblica, camere di commercio, servizi locali, Scia-2 ed enti di ricerca sono gli argomenti del pacchetto approvato ieri dopo i passaggi in Consiglio di Stato, Parlamento e Conferenza Unificata. Le approvazioni insomma, sono definitive, anche se nel caso dei dirigenti, cioè il provvedimento più delicato sul piano politico, il passaggio è nella formula «salvo intese», che lascia spazio a interventi sul testo prima della Gazzetta Ufficiale.
Fin dal primo passaggio in Cdm ad agosto, del resto, la riforma dei dirigenti ha acceso una sorta di rivolta fra i diretti interessati, in particolar modo ai vertici di alcuni ministeri. Il nuovo meccanismo introduce il sistema dei tre «ruoli unici» per Pa statale, Regioni ed enti locali, in cui i dirigenti potranno concorrere per gli incarichi di quattro anni messi a bando dalle amministrazioni. Chi rimane senza incarico perderà le parti variabili della retribuzioni (possono valere fino al 60% della busta paga): dopo due anni, i dirigenti in stand by saranno ricollocati d’ufficio dove c’è un posto disponibile e, in caso di rifiuto, usciranno dal ruolo. Se il dirigente si vede revocare l’incarico perché non raggiunge gli obiettivi fissati dall’amministrazione, ha un anno di tempo per trovarne uno nuovo prima di decadere. Nel tentativo di ancorare alle performance anche le buste paga, il decreto conferma l’obbligo di dedicare al trattamento accessorio almeno il 50% della retribuzione, con almeno tre euro ogni 10 misurati in base ai risultati individuali. Un bel rebus da attuare, vista l’impossibilità di gonfiare i costi complessivi dei dirigenti.
Per evitare il rischio di ricorsi, e superare i problemi di legittimità evocati dal Consiglio di Stato, il passaggio al nuovo sistema sarà però parecchio graduale: i meccanismi attuali rimangono in vigore fino a quando le commissioni chiamate a gestire i tre ruoli non fisseranno i criteri generali in base ai quali assegnare gli incarichi, e nei 18 mesi successivi gli incarichi statali, regionali o locali saranno riservati (con una deroga massima del 15%) a chi è iscritto ai rispettivi ruoli. Solo dopo, in pratica, si potrà attivare il passaggio libero dai Comuni alle Regioni o allo Stato, o viceversa, che traduce l’obiettivo della riforma di creare una «dirigenza della Repubblica» unica e mobile.
Per centrare questo obiettivo, la nuova architettura manda progressivamente in soffitta anche la divisione fra prima e seconda fascia nella dirigenza statale, e quindi allarga la “concorrenza” per i posti più ambiti. Di qui l’opposizione degli attuali dirigenti di prima fascia, che nel testo approvato in prima lettura ad agosto aveva prodotto una clausola di salvaguardia per riservare agli attuali dirigenti di prima fascia il 30% dei posti dirigenziali generali messi a bando. Ieri in consiglio dei ministri si è discusso di una nuova ipotesi di tutela generalizzata (anticipata sul Sole 24 Ore di martedì scorso), che avrebbe determinato una sorta di diritto agli incarichi più alti a tutti gli attuali dirigenti di prima fascia, ma proprio su questo punto si è animata la discussione che ha portato al «salvo intese». La partita, insomma, continua a essere aperta su questo punto, mentre sono stati accolte le altre richieste di modifica poste dal Parlamento: le commissioni nazionali saranno più ampie e avranno disponibilità di personale dalla Funzione pubblica, quelle relative a regioni ed enti locali avranno ampia autonomia nella definizione dei loro meccanismi e gli enti locali potranno contare su un fondo perequativo per finanziare lo stipendio base dei dirigenti che restano in parcheggio. Senza questo correttivo, infatti, alla scadenza dei quattro anni i Comuni avrebbero dovuto finanziare sia la busta paga integrale del nuovo dirigente sia quella residua del suo predecessore, pagando due persone per averne una con il rischio di sforare i tetti di spesa di personale.
Il Sole 24 Ore – 25 novembre 2016