La prima a metterla e dopo solo due anni potrebbe essere la prima a toglierla. Perché? Non ha cambiato le abitudini di consumo e le proteste hanno superato i consensi senza avere neanche convinto del tutto gli scienziati. Ticca (Società italiana alimentazione): “Non sono le tasse a migliorare gli stili di vita”.
Il governo danese ha annunciato proprio in questi giorni di voler abolire la tassa sui cibi grassi che aveva istituito a ottobre 2011. In soli due anni la Danimarca diventa così il primo paese ad aver istituito una tassa del genere e anche il primo ad averla eliminata. La decisione arriva come conseguenza di una serie di considerazioni: da una parte il fatto che l’imposta non sembra aver cambiato di molto le abitudini alimentari dei cittadini; dall’altra il fatto che la tassa è stata oggetto di aspre critiche da parte di aziende alimentari e rivenditori. E poi il mondo accademico non aveva mai raggiunto una posizione unitaria sull’utilità di norme del genere, mentre la decisione del governo danese sembrerebbe oggi suscitare l’approvazione di diversi nutrizionisti ed esperti, anche italiani.
In molti hanno minacciato di approvarla, ma solo qualcuno l’ha fatto: finora sono infatti state solo Danimarca e Ungheria a istituire una imposta sui cibi grassi, mentre il governo francese ne ha creata una per le bevande ad alto contenuto di zuccheri, e il governatore dello Stato di New York ha promosso un’enorme campagna mediatica contro queste ultime. Molti altri però, come l’Italia, l’Inghilterra, la Romania e la Finlandia hanno a lungo discusso la possibilità di tassare questo tipo di alimenti, aprendo dibattiti anche feroci sulla fattibilità dell’approvazione senza però mai fare il passo decisivo.
Un’idea simile l’aveva infatti avuta qualche mese fa anche il Ministro Renato Balduzzi, che aveva inizialmente inserito nel suo più recente decreto sanità – pubblicato in Gazzetta Ufficiale appena qualche giorno fa – anche una tassa sulle bibite gassate, che aveva però infine deciso di togliere, lasciando solo alcune disposizioni sul contenuto di frutta al loro interno.
Il concetto alla base della cosiddetta “Fat tax” è semplice: poiché la cattiva alimentazione, e in particolare l’eccessivo consumo di grassi e zuccheri, concorrono all’insorgenza di patologie cardiovascolari e metaboliche, per scoraggiarne la vendita si introduce una tassa che ne aumenta il prezzo (e permette nel frattempo al Governo di turno di fare cassa). In particolare l’imposta danese prevedeva che si dovesse pagare sui cibi acquistati 2,15€ per ogni chilo di grassi saturi in essi contenuti, ma solo se questi superavano nell’alimento la percentuale del 2,3%. Il calcolo non è del tutto immediato, e anche per questo erano arrivate le prime critiche quando a ottobre 2011 la tassa era stata approvata: per farla semplice e per farsi un’idea, comunque, l’imposta aumentava il costo di ogni confezione di patatine di circa 9 centesimi, di ogni panetto di burro di 21 centesimi, e di ogni hamburger di 30.
Ma è proprio il pensiero stesso su cui si basa la tassa a non essere condiviso da alcuni esperti. “L’idea di riuscire a combattere la cattiva alimentazione e l’obesità tassando alcuni cibi e/o bevande è priva di senso, dato che, come si sa, i problemi di salute delle nostre popolazioni supersedentarie dipendono dalla qualità e dalla quantità del complesso della dieta abitualmente consumata. Insomma, non esistono cibi buoni e cibi cattivi, e qualunque alimento può diventare junk-food se consumato in eccesso”, ha infatti commentato Marcello Ticca, vicepresidente della Società Italiana di Scienza dell’Alimentazione (Sisa). “Tassare è inutile, come l’esperienza danese insegna. E questo è ancora più attuale in un momento storico nel quale, in Italia, è in moto una forma di utilissima collaborazione che ha fatto sì che le Associazioni che rappresentano le più importanti Aziende produttrici di alimenti e bevande abbiano concordato con il Ministero della Salute un documento che le impegna ad apportare, nel giro di pochissimi anni, una serie di ulteriori miglioramenti a prodotti e confezioni”. Ticca ha poi continuato: “Ciò che occorre fare, piuttosto, è prevenire. E questo va fatto affrontando il problema alla radice, ossia favorendo consumi più equilibrati e più approvabili attraverso un miglioramento della informazione istituzionale rivolta ai consumatori ed attraverso la promozione della educazione alimentare nelle scuole e sui mass media, ad esempio diffondendo su larga scala documenti scientificamente validi e didatticamente comprensibilissimi quali le Linee Guida alimentari prodotte dall’INRAN. In sintesi, più conoscenza e cultura e meno inutili deterrenti fiscali.”
In effetti la “Fat tax” ha spaccato il mondo accademico tra chi non la trova una buona idea, e chi crede che potrebbe essere invece efficace. In uno studio ventennale pubblicato nel 2010 su Archives of Internal Medicine, infatti, alcuni ricercatori dell’Università della Carolina del Nord avevano dimostrato come una tassa del 10% sulle bevande zuccherate poteva portare ad una riduzione media del 7% del loro consumo, così come un’imposta analoga sulla pizza ne avrebbe ridotto il consumo del 12%; e ancora, gli scienziati avevano dimostrato che tassando del 18% cibi e bevande non salutari si sarebbe potuto ridurre l’apporto calorico giornaliero di una persona media di 56 calorie, che vuol dire una perdita di 2kg di peso l’anno a cittadino.
Tuttavia, altri studi hanno poi dimostrato che il miglioramento potrebbe non essere così sostanziale come emerge da questo lavoro. Inoltre, negli ultimi anni si è sempre più diffusa tra medici e scienziati, la convinzione che non sia solo la dieta ad essere importante, quanto più lo sia una corretta educazione a stili di vita più sani e attivi. “Il passo indietro della Danimarca sulla tassazione di grassi e zuccheri è emblematico: le tasse non servono a migliorare i comportamenti nutrizionali dei cittadini, in quanto non agiscono sulle motivazioni e le consapevolezze all’origine di molti consumi”, ha specificato Maria Paola Graziani, in psicologia dei consumi al Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr).
Sono infatti questioni come l’abitudine e la tradizione, il gusto e lo stato d’animo, ma anche l’accesso facile all’alimento e il prezzo, a indirizzare le abitudini alimentari dei cittadini. “Per questo motivo, la demonizzazione o proibizione genericamente proposta ‘a pioggia’ verso singoli comportamenti – ha continuato la ricercatrice – spesso ottiene l’effetto opposto o nessun effetto. Va perseguito invece un percorso didattico–educativo verso stili di vita sani e corretti che, pur lungo e difficile, può dare “buoni frutti” soprattutto se svolto nel sociale fra le famiglie e le comunità e nelle scuole primarie e secondarie. L’esempio della Danimarca dimostra che è inutile cercare delle scorciatoie. Bisogna concentrarsi e investire in formazione per diffondere sia gli elementi fondamentali della educazione alimentare che la promozione all’attività fisica e, ultima non ultima, la consapevolezza al consumo e l’attenzione alle proposte della pubblicità commerciale, sottolineando il ruolo “giocato” dalle proprie emozioni e motivazioni”.
Laura Berardi – 16 novembre 2012 – quotidianosanita.it