E’ quanto si legge nel documento preparato dal gruppo di lavoro del Mef in vista della delega fiscale e assistenziale. Per la sanità (in totale 2,3 miliardi di detrazioni) il suggerimento è però quello di aumentare la percentuale detraibile come arma contro l’evasione sulle parcelle mediche.
Che le misure per il controllo della spesa non fossero finite con la Fase I l’aveva detto chiaramente il presidente del Consiglio Mario Monti alla conferenza stampa dello scorso 29 dicembre. E infatti, accanto alle liberalizzazioni e alla riforma del lavoro per la crescita del Paese, il Governo Monti si prepara a mettere le mani anche sulle agevolazioni fiscali, con l’obiettivo di recuperare denaro oggi sottratto allo Stato da sistemi di sconto previsti sì dalla legge, ma non sempre attuati in modo trasparente e non sempre equi.
E così, in vista della delega per la riforma fiscale e assistenziale del Governo Berlusconi, i riflettori si sono accesi nei giorni scorsi sulle otre 450 pagine del dossier sull’erosione fiscale pubblicato dal ministero dell’Economia, in cui sono individuate ben 720 misure e regimi eccezionali di detrazioni e facilitazioni fiscali per un totale di 253 miliardi di euro l’anno di mancato gettito.
Riprendiamo oggi il documento, già rilanciato sabato scorso da molti quotidiani nazionali, perché tra quelle 720 norme evidenziate dal gruppo di lavoro costituito da Giulio Tremonti, allora ministro dell’Economia, e formato da 32 membri appartenenti a organizzazioni sindacali, associazioni di categoria e ordini professionali, ce ne sono numerose che riguardano proprio la sanità e che potrebbero dunque rientrare nella riforma fiscale e assistenziale dalla quale si attendono 20 miliardi di risparmio. Ricordiamo, peraltro, che per alimentare la clausola di salvaguardia prevista dalla legge, la manovra Monti approvata a Natale, per evitare che scattino in automatico i tagli lineari, ha stabilito di aumentare del 2% l’Iva su tutti i beni a partire dal 1 ottobre 2012 e di un ulteriore 0,5% a decorrere dal 1 gennaio 2014.
Per quanto riguarda la ricognizione sulle detrazioni sanitarie, l’attenzione maggiore del gruppo di lavoro si è posata sulla stima di 2,356 miliardi di mancato gettito derivante dalla detrazione d’imposta del 19% del costo sostenuto dagli italiani per le spese sanitarie con franchigia di euro 129,11, come previsto dall’art. 15, comma 1, lettera c) e comma 2, del TUIR per le spese sanitarie, mediche, specialistiche, chirurgiche, per protesi dentarie e sanitarie e di assistenza specifica (diverse da quelle necessarie nei casi di grave e permanente invalidità o menomazione, che sono interamente deducibili ai sensi dell’art.10, comma 1, lettera b), nonché le spese per i mezzi necessari all’accompagnamento, alla deambulazione, alla locomozione e al sollevamento di disabili e per i sussidi tecnici volti a favorire l’autosufficienza.
L’ammontare più alto di detrazioni per questa voce di spesa si registra nel Nord-Ovest, 829.565 milioni di euro contro i 558 del Nord-Est, i 522 del Centro e i 445 di Sud ed Isole. Ma in tutte le aree del Paese sono omogenee le fasce di popolazioni che detraggono somme di più alte di spese sanitarie, e si tratta di quelle con reddito complessivo compreso tra i 15 mila e i 55 mila euro, che determinano 1,629 miliardi di detrazioni sui complessivi 2,356 miliardi, rappresentando, d’altra parte, la quota più numerosa di popolazione. Poco più di 431 milioni, invece, le detrazioni per i redditi fino a 15 mila euro e 913 milioni quelli per i redditi sopra i 55 mila euro.
Ma si tratta di una detrazione “insufficiente” e una “franchigia iniqua”, secondo il gruppo di lavoro, che osserva come “la percentuale di detrazione del 19% è troppo bassa rispetto agli ‘sconti’ proposti abitualmente dai professionisti sanitari in cambio della non emissione della fattura (normalmente dal 20 al 30%) e, inoltre, lo ‘sconto’ viene fruito immediatamente mentre la detrazione solamente l’anno successivo. La percentuale andrebbe aumentata almeno al 30-40%, magari per le sole spese specialistiche di professionisti e cliniche private (escludendo medicinali, ticket, prestazioni di ospedali pubblici e convenzionati per cui rimarrebbe ferma al 19%), per contrastare il fenomeno della sotto fatturazione e stimolare il contribuente a richiedere il documento fiscale. Il minor gettito verrebbe abbondantemente coperto dal recupero dell’evasione soprattutto nel settore protesico odontoiatrico e in quello medico specialistico in genere, dove risulta essere ancora molto elevata. La franchigia – si legge ancora sul documento – sembra iniqua se si pensa che un contribuente con reddito elevato e coniuge a carico (in quanto può permettersi di non lavorare) e conseguentemente anche con i figli interamente a suo carico, la applica una sola volta sul totale delle spese mediche sostenute per tutta la famiglia, mentre ad esempio due coniugi con redditi singolarmente bassi (magari nella somma inferiori a quelli del contribuente precedente!), ma superiori al minimo per essere considerati a carico, sono penalizzati da una doppia franchigia. Non deve essere, inoltre, sottaciuto che forse il contribuente che spende poco e rimane sotto la franchigia lo fa proprio in considerazione della sua bassa situazione reddituale che non gli permette di rivolgersi a determinati specialisti e se lo fa accetta di buon grado di non farsi fare la fattura in luogo di uno sconto consistente di cui può fruire subito. Al posto della franchigia, che andrebbe eliminata, si potrebbe prevedere invece una soglia di reddito oltre la quale bloccare la detrazione con esclusione per le sole patologie più gravi”.
Per quanto riguarda i compensi dei professionisti sanitari, un capitolo del documento si concentra anche su quelli per l’attività intramuraria esercitata presso studi professionali privati, che costituiscono reddito nella misura del 75%. Considerando la detassazione del 25% e applicando l’aliquota marginale media Irpef pari al 35%, secondo gli esperti dell’Economia a questa voce corrisponde una perdita di gettito pari a 32,1 milioni di euro.
Maggiori controlli, secondo il gruppo di lavoro, andrebbero fatti anche rispetto ai contributi di assistenza sanitaria versati a enti e casse aventi esclusivamente fine assistenziale. Secondo il gruppo di lavoro, infatti, “nella quantificazione dell’effetto erosivo della non concorrenza all’imponibile di lavoro dipendente dei ‘contributi di assistenza sanitaria versati a enti e casse aventi esclusivamente fine assistenziale’, occorre considerare che la non imponibilità soffre una limitazione fino ad un massimo di 3.615,20 euro, importo oltre il quale detti contributi concorrono alla formazione della base imponibile. La quantificazione della misura, inoltre, dovrebbe tenere conto del fatto che gli enti e le casse destinatari dei contributi, provvedono al ristoro di parte delle spese sanitarie sostenute dai lavoratori dipendenti iscritti e che le spese rimborsate non sono conseguentemente detraibili quali spese sanitarie nella prevista misura del 19% della spesa sostenuta, netto franchigia (secondo le norme descritte precedentemente, ndr). Gli enti e le casse sanitarie – si legge ancora nel documento – sono tenute a trasmettere all’Agenzia delle Entrate gli elenchi dei rimborsi effettuati e, quindi, dovrebbe essere possibile sapere quante spese sanitarie non sono confluite nella detrazione del 19% a fronte della non imponibilità dei contributi versati. Detto importo, infatti, verrebbe detratto al 19% se fossero imponibili i contributi versati alle casse sanitarie e quindi limitare la non imponibilità dei contributi comporterebbe una maggiore erosione sul fronte della detraibilità delle spese mediche, di cui andrebbe tenuto conto. Non va sottaciuto anche il fatto che occorrerebbe migliorare e intensificare i controlli mediante l’incrocio dei dati disponibili, perché risulta diffuso il comportamento di fotocopiare la documentazione medica da consegnare al CAF prima di inviarla alla Cassa per ottenere il rimborso, che apporrà un timbro sul documento con l’importo rimborsato; in questo modo l’operatore del CAF, ignaro dell’avvenuto rimborso, pone in detrazione l’intero importo pagato e la mancanza di controlli fa il resto”.
Quanto alla tanto contestata esenzione dall’Ici per enti ecclesiastici, Onlus ed enti di volontariato destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, secondo la stima del gruppo di lavoro, l’abrogazione delle disposizioni porterebbe a un gettito pari a circa 100 milioni di euro.
Sotto la lente del gruppo di lavoro sono finite anche le norme che disciplinano, ad esempio, i beni e i servizi soggetti alle aliquote ridotte del 4% e del 10% (tra cui prodotti medicinali e farmaceutici), che per il capitolo sanità produrrebbe un gettito mancato pari a 1,827 miliardi di euro.
Per i contributi versati a enti e alle casse sanitarie aventi esclusivamente fini assistenziali dei 3,2 milioni di soggetti interessati si stima un ammontare di deduzioni di circa 1.369 milioni di euro. Applicando un’aliquota marginale media (per il lavoro dipendente) pari al 27% e considerando l’effetto sulle addizionali Irpef, si ottiene una stima pari a 391,8 milioni di euro. A cui si dovrebbero poi sommare i contributi deducibili versati a gestioni pensionistiche obbligatorie, come l’Onaosi.
Per i contributi versati ai fondi integrativi sanitari da 168.677 italiani, per i quali è prevista la deducibilità fino a un massimo di 3.615,2 euro, risulta un ammontare pari a 63,4 milioni di euro dichiarati. Tale importo è stato moltiplicato per l’aliquota marginale media dei contribuenti Irpef, pari al 27%, ottenendo, così, una stima di -17,1 milioni di euro. Considerando anche le addizionali Irpef, l’effetto complessivo risulta pari a -18,1 milioni di euro.
Quotidianosanita.it 2 gennaio 2012