Una trattativa durata fino all’ultimo minuto prima del consiglio dei ministri finisce con il crollo della diga alzata dal ministro dell’Economia: «Accordo raggiunto con tutto il governo sul deficit al 2,4%», esultano all’unisono i due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini. L’annuncio dell’intesa viene trasmesso in diretta alla riunione congiunta dei parlamentari M5S, e scatta l’applauso. Tria, nonostante la sconfitta secca, decide di rimanere al suo posto dopo una telefonata arrivata dal Quirinale.
Di Maio e Salvini non hanno voluto mollare la presa sul 2,4% indispensabile per fare spazio a riforma delle pensioni e reddito di cittadinanza nella “formula piena” elaborata dai due partiti. Un pacchetto che da solo pesa per 16-18 miliardi, come confermano i numeri rilanciati in serata dai vicepremier: Di Maio parla di 10 miliardi per «restituire il futuro a sei milioni e mezzo di persone», e Salvini risponde con «tasse abbassate al 15% per più di un milione di lavoratori» e «diritto alla pensione per almeno 400mila persone». Chiudono il quadro gli 1,5 miliardi per il fondo salva-risparmiatori, alimentato dai conti dormienti.
Ma sono reddito di cittadinanza e stop alla Fornero ad aver spinto le richieste M5S-Lega a quota 2,4%. Un livello contro il quale Tria ha provato a resistere fino all’ultimo perché non garantisce né l’abbassamento del debito pubblico né il «non peggioramento» del deficit strutturale. Con un disavanzo 2019 al 2,4%, cioè 8 decimi in più di quello che era stato programmato per quest’anno, il saldo strutturale dovrebbe tornare secondo i primi calcoli intorno all’1-1,1%. E soprattutto la discesa del debito è a forte rischio. Cadono così i due pilastri su cui era stata impostata la manovra al Mef. E su questi snodi inizia in queste ore la partita dei mercati, e una complicata trattativa con Bruxelles che nei giorni scorsi aveva ribadito l’esigenza che l’Italia riducesse debito e disavanzo.
Non sono bastate nemmeno le riunioni del pomeriggio a far incontrare due linee di politica economica che si sono rivelate inconciliabili al di là dei balletti sulle cifre. Il parallelismo dei due binari si è materializzato anche nella logistica degli incontri a Palazzo Chigi. Il titolare dell’Economia Tria e il collega agli Affari europei Paolo Savona hanno visto Conte senza incrociare i due vicepremier. Salvini e Di Maio sono arrivati nella sede del governo quando Tria e Savona erano già usciti per rielaborare le tabelle con le ultime ipotesi di mediazione. Il vertice vero e proprio, con Tria al tavolo con Salvini e Di Maio, è quindi iniziato solo in serata.
Il tiro alla fune si è concentrato sui decimali, ma ad alimentarlo sono state due visioni contrapposte. Tria aveva identificato la «stabilità finanziaria» come precondizione per attuare le misure del contratto di governo, perché nuove fiammate della spesa per interessi e un rischio-Italia tornato protagonista sulla scena vanificherebbero gli interventi per rilanciare consumi e investimenti. Speculare l’agenda delle priorità dei due vicepremier, che parte dalle due misure bandiera su pensioni e reddito di cittadinanza per fissare i confini della manovra.
Il tutto all’interno di uno spazio di finanza pubblica già occupato dalle ricadute della minor crescita e dell’aumento della spesa per interessi. Proprio questi due elementi hanno reso indigeribile l’idea di un deficit all’1,6% (il doppio rispetto ai vecchi programmi) su cui Tria aveva spuntato un primo accordo a Bruxelles. L’aumento degli spread e la frenata del Pil sono bastate a portare il tendenziale 2019 dallo 0,8% previsto ad aprile all’1,2%. Su questo livello pesano i 12,4 miliardi di clausole Iva da bloccare, che da sole sarebbero bastate a esaurire del tutto gli spazi senza altre coperture. Coperture che, a partire dalla spending, si fermano per ora molto sotto le ambizioni lanciate in campagna elettorale.
Una manovra ben oltre i 30 miliardi, dunque, al di là del perimetro abbozzato nei giorni scorsi dai tecnici del Mef: 26-28 miliardi facendo leva anche su risorse già stanziate con le precedenti leggi di bilancio. È il caso, ad esempio, dei 2,5 miliardi per il Rei (reddito di inclusione) nel 2019 e probabilmente di una parte dei fondi per la Naspi destinati ad alimentare il reddito di cittadinanza insieme al ricorso a una fetta di fondi europei per coprire una parte del riordino dei centri per l’impiego. Il costo complessivo per garantire già nel secondo semestre del prossimo anno i 780 euro a circa 6 milioni di cittadini sotto la soglia di povertà, pensionati compresi, è stato stimato in quasi 10 miliardi.
Altri 7 miliardi saranno necessari per ripristinare le pensioni di anzianità attraverso una quota 100 con un minimo di 62 anni di età e 36 anni di contribuzione ma senza nessun altro paletto. Questa operazione dovrebbe poi essere accompagnata in tempi non troppo lunghi dalla possibilità di uscire dal lavoro anche con 41 anni e mezzo di età a prescindere dagli anni di versamenti contributivi.
Un intervento su cui il Mef avrebbe manifestato più di una perplessità sia per la portata finanziaria sia per le ricadute sul confronto con la Ue e sull’andamento dei mercati finanziari che considerano la riforma Fornero un pilastro inamovibile dalla nostra struttura di finanza pubblica. Nel mosaico della manovra c’è poi il pacchetto fiscale, che è stato stimato in 3,5-4,5 miliardi. La completa realizzazione di questi interventi sarebbe stata molto ardua con un deficit 2019 sotto al 2 per cento.
Per questo motivo il Movimento cinque stelle e la Lega hanno insistito nel far salire l’asticella almeno al 2,4%: 1,5 punti in più rispetto alle indicazioni del Def targato Gentiloni-Padoan (0,8% aggiornato allo 0,9% per la minor crescita rispetto a quella stimata) e circa 1,2-1,3% in più sul tendenziale aggiornato a via XX settembre (1,1-1,2%). In altre parole, non meno di 20 miliardi di flessibilità. Con un disavanzo all’1,9% o al 2%, ovvero la linea tracciata negli ultimi giorni da Tria, l’extra-deficit utilizzabile (12-13 miliardo) avrebbe avuto quasi l’esclusiva funzione di coprire la sterilizzazione delle clausole Iva. Non solo: secondo le prime valutazioni del Mef l’obiettivo della prosecuzione del percorso di riduzione del debito pubblico, su cui il governo si è impegnato con Bruxelles, sarebbe stato perseguibile soltanto con un indebitamento della Pa sotto il 2% mentre per realizzare una correzione del deficit strutturale di almeno lo 0,1% sarebbe stato necessario fermarsi all’1,6-1,7 per cento.
IL SOLE 24 ORE