Roberto Petrini. La caccia grossa alle risorse per il prossimo anno che sarà cifrata nel Documento di economia e finanza ha come obiettivo una preda che vale circa 15 miliardi. Le ultime stime stanno rimbalzando ancora tra Palazzo Chigi e il Tesoro e, con tutta probabilità, sarà decisiva la riunione del Consiglio dei ministri prevista per la prossima settimana che varerà il Def in tempo utile per consegnarlo al Parlamento e a Bruxelles entro il 10 aprile.
La priorità è quella di non aumentare le tasse e dunque quella di scongiurare il previsto rincaro dell’Iva di due punti percentuali dal primo gennaio del prossimo anno: la garanzia risale alla vecchia spending review di Cottarelli del 2014 quando appunto si stabilì che nel 2016 si sarebbero dovuti fare tagli a regime per 16 miliardi. Guai a non farli, si stabilì, perché altrimenti scatterà automaticamente l’aumento delle tasse. Dei 16 miliardi di tagli tuttavia già 5-6 sono in atto da quest’anno: per questo c’è attesa per verificare se le norme della legge di Stabilità per Comuni, Province e Comuni stiano “mordendo” ovvero non siano stati vanificati.
Ci sarebbero così da recuperare circa 10 miliardi per i quali si conta sulla spending review affidata, a Palazzo Chigi, al nuovo commissario Yoram Gutgeld che, in collaborazione con Via Venti Settembre, sta stilando le priorità. Le misure arriveranno naturalmente in autunno, con la nuova legge di Stabilità, ma già nel Def si affacceranno. Si va dal comparto enti locali e sanità dove si punta alla implementazione dei costi standard, all’intervento sulle pensioni di invalidità (senza intaccare il livello delle prestazioni e nell’ambito di una riforma dell’assistenza). La difesa e le forze di polizia non rimarranno fuori: recentemente il governo Cameron ha annunciato una riduzione delle spese per la Difesa che sono superiori tuttavia a quelle italiane (il nostro Paese spende l’1,6 per cento del Pil e la Gran Bretagna il 2,3). Nel mirino torna anche la riforma dei corpi di polizia: come è noto in Italia sono sovrabbondanti e tra le ipotesi c’è un intervento sulla Forestale. L’altro grande settore è quello delle agevolazioni fiscali, in particolare quelle alle imprese: si riaffaccia il piano Giavazzi che indicava in circa 10 miliardi i sussidi e le agevolazioni concesse al mondo industriale e potenzialmente aggredibili.
La partita tuttavia non si esaurisce qui. Perché oltre all’Iva c’è il problema di rispettare il piano di rientro del deficit concordato con Bruxelles. La Nota di aggiornamento dell’ottobre scorso, dopo il braccio di ferro che ci condusse a rafforzare la Stabilità, fissa il deficit per quest’anno al 2,6 per cento del Pil: se sarà raggiunto questo obiettivo, quello successivo prevede di scendere all’1,8 per cento. Questa manovra sarà più semplice del previsto grazie alla ripresa: considerando una crescita per il 2016 dell’1,3 per cento (cifra di Bruxelles, già più alta dell’1 previsto dall’Italia) la discesa viene definita «automatica» perché la maggior crescita consentirà di ridurre il rapporto deficit-Pil dello 0,7 per cento. Saremo vicini dunque all’1,8 previsto.
Tutto bene? Niente affatto, perché siamo sotto osservazione continua di Bruxelles, che qualche settimana fa ci ha “graziato” e che per il prossimo anno è pronta a chiedere uno 0,3 per cento di manovra per raggiungere il pareggio di bilancio strutturale, cioè al netto della congiuntura. Non si potrà derogare perché quest’anno abbiamo beneficiato dell’alibi della congiuntura (“very bad times”, nel glossario di Bruxelles), mentre il prossimo anno ci sarà la ripresa. Risultato: non ci saranno scuse e, oltre ai 10 miliardi della spending review, dovremmo trovarne altri 5 per onorare il Fiscal compact.
Naturalmente serviranno anche risorse per la crescita, che Renzi non si vorrà far mancare. Per questo non è escluso che il quadro macro venga tracciato da Palazzo Chigi con un po’ più di ottimismo e che l’obiettivo del deficit invece di stare fermo all’1,8 venga elevato di qualche decimale e che la crescita (dopo aver portato quella di quest’anno allo 0,7) possa salire nelle stime fino all’1,5 per cento. In questo caso la strada sarebbe meno ripida anche perché ci sono i 6-8 miliardi di risparmi per la spesa per gli interessi dovuti al dividendo dello spread e l’una tantum del rientro dei capitali dalla Svizzera.
Repubblica – 31 marzo 2015