Alberto Flores D’Arcais. Un malato in isolamento totale, oltre cento persone in quarantena, un ospedale sotto accusa e una città che adesso ha paura. Thomas Eric Duncan, l’uomo che ha portato il virus Ebola negli Stati Uniti, è chiuso in una stanza del Texas Health Presbyterian Hospital, in condizioni che i burocratici bollettini medici definiscono «gravi ma stabili».
Al pronto soccorso di questo grande centro ospedaliero si era presentato il 25 settembre, con una forte febbre e grandi nausee. Lo avevano dimesso poco dopo prescrivendogli antibiotici e riposo. Nessuno aveva fatto caso che Duncan aveva scritto, in uno dei tanti fogli da compilare per il ricovero, di essere arrivato dall’Africa, anzi da uno dei paesi africani più colpiti dal virus, la Liberia. Era arrivato a Dallas il 20 settembre, dopo un lungo viaggio aereo che da Monrovia lo aveva portato in Texas via Bruxelles e Washington. Al Presbyterian sarebbe tornato tre giorni dopo, questa volta su un autoambulanza e in terribili condizioni fisiche. Ed è stato solo allora che i medici hanno capito.
Da quel momento le autorità sanitarie del Texas hanno iniziato a ricostruire tutti gli spostamenti del “paziente zero”, a verificare chi ha incontrato, tutti coloro che in qualche modo possono essere stati infettati. I familiari e gli amici più stretti (una dozzina di persone) dovranno restare chiusi a casa e non entrare in contatto con nessuno (in caso contrario rischiano di essere incriminati penalmente) fino al 19 ottobre, quando scadranno i 21 giorni di incubazione. Vengono controllati due volte al giorno per essere certi che non abbiano sintomi della malattia. Oltre a loro, tutti quelli che in qualche modo sono venuti a contatto con Duncan (infermieri e medici compresi) dovranno restare in quarantena per tre settimane. Una delle principali preoccupazioni è legata ai cinque bambini che sono stati in contatto col paziente liberiano. Quattro scuole di Dallas sono state controllate in ogni centimetro, per essere certi che non ci siano pericoli di infezione, ma non sono pochi i genitori che non si fidano e che da tre giorni tengono a casa i propri figli. Il “paziente zero” il giorno dopo il suo arrivo avrebbe inoltre partecipato ad un pranzo all’aperto con molte persone. Per uno dei suoi amici «sembrava stesse bene, poi qualche giorno dopo l’ho visto sdraiato sul letto e mi ha detto che aveva la diarrea». Il 15 settembre, quattro giorni prima della partenza per gli Usa, Duncan aveva aiutato a portare in ospedale e poi di nuovo a casa (visto che non c’erano letti disponibili) la figlia moribonda di una coppia di amici. La ragazza morì nel giro di poche ore. Probabile che proprio in quella occasione l’uomo abbia contratto il virus.
Ovvie le polemiche, coinvolto in prima fila il Presbyterian ma anche i funzionari delle dogane. Dalla Liberia fanno sapere che Duncan verrà incriminato per avere mentito nel formulario sanitario alla partenza da Monrovia (aveva risposto no alla domanda se avesse avuto o meno contatti con malati di Ebola). Mentre dalle Hawaii arriva un secondo allarme: mercoledì sera un uomo, con sintomi simili, è stato messo in isolamento. Anche la paura è contagiosa: ieri il capo della missione Onu in Africa occidentale ha parlato della possibilità che il virus possa mutare e trasmettersi per via aerea.
Repubblica – 3 ottobre 2014