Maurizio Tropeano. Aiutati che Dio ti aiuta. Perché «quando vediamo camion cechi, polacchi, bulgari, oltre a quelli targati Francia e Germania, scaricare latte nei caseifici piemontesi per poi trasformarlo in formaggio italiano dobbiamo far qualcosa prima di soccombere». A Bari gli agricoltori della Coldiretti vanno con i barchini all’arrembaggio delle navi che scaricano grano importato.
Dalle stalle che dalla pianura torinese si estendono fino ai piedi delle montagne del cuneese e risalgono verso la Val d’Ossola, gli autoconvocati del latte lanciano la prima campagna pubblicitaria di promozione low cost autofinanziata per spiegare, anche al vicino di casa, che «gli italiani lo fanno meglio». Il latte. E proprio sul latte da tempo c’è un braccio di ferro fra Ue e allevatori. Per loro è una questione di vita o di morte. «Ci siamo organizzati con gruppi di volontari Comune per Comune», racconta Silvano Basano che ha un’azienda agricola ad Airasca, provincia di Torino.
Tra Airasca, Scalenghe, Racconigi è nata lo scorso autunno una protesta spontanea che ha coinvolto anche mangimisti, venditori di macchine agricole e agronomi. Una mobilitazione trasversale perché quando «non si guadagnano, e dunque, si perdono 1000 euro l’anno su una mucca, prima di fallire si taglia il resto, cioè non si rinnova il parco macchine, si rinviano i pagamenti ai fornitori e si tagliano le consulenze di chi ti può spiegare come migliorare produzione e reddito della tua azienda», spiega Paolo Druetta che vende mangimi con base a Scalenghe e di fatto è il coordinatore social di questo movimento che attraverso un gruppo WhatsApp coordina mobilitazioni e iniziative.
Ottobre 2015. Prima assemblea con 700 allevatori, poi a Torino in trecento si confrontano con l’assessore regionale all’Agricoltura. Poi un giorno «esasperati, invece di andare nelle stalle ci siamo presentati di buon mattino davanti ai cancelli di un caseificio nel cuneese. Per me era la prima volta di una protesta di piazza», racconta Druetta. Due giorni dopo si mobilitano anche le grandi organizzazioni agricole. Alla fine, anche grazie all’intervento del governo, si riesce a strappare qualche centesimo in più, si arresta la caduta verticale del prezzo, ma gli allevatori piemontesi continuano a passasserla peggio di lombardi, veneti ed emiliani.
Il loro latte continua ad essere pagato di meno. L’idea di una campagna di comunicazione rivolta al consumatore nasce per provare ad invertire questo trend. I piemontesi non sono soli e si muovono con i lombardi e veneti: «Abbiamo un progetto – racconta Basana – per cercare di spiegare ai cittadini come leggere un’etichetta. Andremo a parlare con le mamme nei paesi».
Accanto agli allevatori ci sono già gli altri protagonisti del mondo del latte. «L’altro giorno – racconta Druetta – ho divulgato su tutti i canali social del Piemonte che ci seguono la foto del volantino e del manifesto chiedendo alle aziende che lavorano nell’indotto di aiutarci a pagare le spese di tipografia e pubblicità». Come è andata? «Finora hanno riposto in venti e si sono dette disponibili a partecipare: metteranno 200 euro a testa». Il tocco finale l’ha dato il grafico che ha deciso di piemontesizzare la campagna mettendo sullo sfondo del volantino la foto del Monviso. Si parte a marzo.
Petrini: “La tracciabilità è necessaria. Ora tra i consumatori c’è più sensibilità”. Il fondatore di Slow Food: queste iniziative sono destinate a crescere
Luca Ubaldeschi. «Dobbiamo fare molta attenzione – dice Carlo Petrini -, perché queste proteste non sono una battaglia di retroguardia, ma un’azione politica forte. Abbiamo girato pagina, siamo di fronte a una novità importante: la sensibilità di produttori e consumatori per la qualità del cibo e per una produzione sostenibile è aumentata, non sono più attori in competizione. Anche per questo le proteste sono destinate a crescere». Che si parli di grano, latte o arance fa poca differenza, secondo il fondatore e presidente internazionale di Slow Food, da sempre in prima linea nel difendere il lavoro degli agricoltori e la qualità dei prodotti: «Troppo a lungo il mondo agricolo è stato vessato senza poter reagire. Oggi vede che è a rischio la sua sostenibilità economica, ambientale, sociale ed esplode».
Petrini, che cosa lega tutte queste proteste?
«Rivendicare la tracciabilità di un prodotto. Pensiamo alla pasta: è un’esigenza non più ineludibile sapere con che grano è stata fatta, da dove arriva. Oggi non è così, ma non è giusto».
Non lo è per questioni di bandiera?
«No, non pensate a una difesa corporativa, le ragioni sono molto più serie. Prendiamo il latte: in alcuni Paesi dai quali lo compriamo ci sono standard di igiene e pulizia molto lontani da quelli italiani. Non possiamo mettere i nostri produttori in concorrenza con chi lavora molto peggio».
Diversità di condizioni che si traducono in una battaglia di prezzo?
«Le faccio l’esempio dell’olio: ne importiamo quantità notevoli dall’Africa a prezzi ridicoli. Prezzi ai quali in Italia non si paga neppure la raccolta delle olive. Allora se il consumatore sa da dove arriva un prodotto, sa che in Italia è fatto in un certo modo, che un lavoratore italiano costa 5 volte di più di uno dell’Est Europa ed è quindi più consapevole delle ragioni per cui costa di più. Ma sa anche che dietro quel prezzo ha determinate garanzie. Ecco perché la tracciabilità è la nuova frontiera, un diritto per i cittadini, un dovere per il legislatore».
Il grande imputato è la politica agricola europea e le concessioni che dà alle importazioni? Se sì, che cosa si può fare?
«L’Europa ha chiare responsabilità. Il problema non è alzare barriere, ma difendere le nostre comunità agricole perché non lavorino con svantaggio. L’agricoltura non può più essere violentata».
Perché dice che questa è anche una battaglia politica e sociale?
«Perché dopo l’esodo dalle campagne oggi assistiamo a un ritorno. Ci sono molti giovani, anche laureati, che scelgono di tornare alla terra. È nostro dovere garantire loro una vita decorosa, non quella grama dei nostri nonni».
Che cosa può concretamente fare il governo per andare nella direzione che lei indica?
«Il ministro dell’Agricoltura, Martina, si è già schierato dalla sponda giusta e una parte del discorso sulla tracciabilità è già passato. Ma non bisogna assolutamente mollare, guai».
È una battaglia solo italiana?
«Per nulla. Guardate Bernie Sanders, il candidato socialista alle primarie democratiche degli Usa. Nel suo programma ha messo la tracciabilità dei prodotti agricoli e l’agricoltura locale. Leggete quelle pagine e poi non vi stupirete dei sondaggi secondo i quali l’80% degli americani fra i 17 e i 35 anni è dalla sua parte in questo braccio di ferro tra la nuova economia rurale e l’agroindustria. L’Ue dovrebbe imparare dagli impegni che sta prendendo».
Quali, in particolare?
«Sanders dice che alcuni accordi commerciali siglati dagli Stati Uniti non vanno bene, perché sono ingiusti nei confronti di tanti piccoli contadini americani. Bene, lui dice questo mentre l’Europa sta trattando un accordo commerciale con l’America senza minimamente coinvolgere i nostri agricoltori, senza consultarli, senza ascoltare le loro ragioni. Mi pare un atteggiamento schizofrenico».
Lei parla di difesa di produzioni nazionali, ma è anche l’inventore di Terra Madre, che mette in relazione contadini di tutto il mondo, li fa parlare, in qualche modo favorisce gli scambi. Non c’è contraddizione?
«No perché Terra Madre – e uso una parola che non mi piace – è glocal. Cioè ha sì una dimensione planetaria, ma è fatta di comunità che lavorano su economie locali. Le mette in contatto non per farle scontrare, ma perché si arricchiscano con lo scambio di esperienze e si sentano più forti e consapevoli».
La Stampa – 10 febbraio 2016