La disposizione che consente alla pubblica amministrazione di sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di trasformazione del rapporto di lavoro, da tempo pieno a tempo parziale, riportandoli all’orario pieno anche senza il consenso del lavoratore, supera l’esame dell’avvocatura della Corte di giustizia europea.
Con le conclusioni presentate lo scorso 22 maggio, l’avvocato generale propone di rispondere al tribunale di Trento – che ha sollevato la questione nel corso di una causa di lavoro intentata da una dipendente del ministero della Giustizia – nel senso che una normativa che consenta al datore di lavoro di disporre la trasformazione del rapporto di lavoro da part time a tempo pieno, contro la volontà del lavoratore, non è contraria alla direttiva 97/81/Ce, che ha recepito l’accordo quadro comunitario sul lavoro a tempo parziale.
Sulla norma incriminata (articolo 16 della legge 183/2010) si è già pronunciata la Corte costituzionale che, con la sentenza 224 del 2013 ha sancito la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Rimini in funzione di giudice del lavoro. Entrambe le ordinanze di remissione si rapportano alla clausola 5.2 della direttiva 97/81 che sancisce il principio secondo il quale «il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento». Secondo il ricorso presentato alla Corte di giustizia (C-221/13) questa clausola dovrebbe essere interpretata nel senso che essa vieta a un datore di lavoro – del settore privato o del settore pubblico – di modificare il rapporto di lavoro senza il consenso espresso del lavoratore. Ritiene, infatti, il giudice del rinvio che l’articolo 16 della legge 183/2010 comporti la discriminazione dei lavoratori a tempo parziale in quanto, a differenza di quelli a tempo pieno, sono soggetti al rischio di una modifica unilaterale dell’orario di lavoro.
Il governo italiano ha posto l’accento sulla natura transitoria della norma in esame che consente, entro 180 giorni dall’entrata in vigore, alle amministrazioni pubbliche di riconsiderare i provvedimenti di trasformazione da tempo pieno a parziale adottati prima dell’entrata in vigore del Dl 112/2008 che ha modificato la materia.
Secondo l’avvocatura della Corte di giustizia, la terminologia utilizzata nella clausola 5.2 dell’accordo quadro (…non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento) risulta deliberatamente vaga. Da essa è difficile trarre la conclusione che essa concede ai lavoratori un incontestabile diritto di rifiutare la trasformazione del rapporto di lavoro. La finalità della clausola 5 dell’accordo è facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria e contribuire all’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro, in modo da tenere conto sia delle esigenze del lavoratore sia di quelle del datore di lavoro.
In questa ottica, la clausola 5.2 non osta a che una norma nazionale preveda la possibilità, per il datore di lavoro, di disporre unilateralmente la trasformazione del rapporto di lavoro da part time a tempo pieno. Nemmeno ciò costituisce una discriminazione vietata dalla clausola 4 dell’accordo quadro, poiché il rischio che corre il lavoratore part time di vedere trasformato a tempo pieno, contro la sua volontà, il suo rapporto di lavoro non può essere comparato con il rischio che ciò possa accadere a un lavoratore a tempo pieno comparabile, in quanto quest’ultimo già lavora, appunto, a tempo pieno.
Diverso è il caso del passaggio da tempo pieno a tempo parziale, in quanto opera il divieto di ridurre diritti già acquisiti che il lavoratore ha maturato. Pertanto, fermi restando i principi di correttezza e buona fede, la norma comunitaria non impedisce che una norma nazionale consenta al datore di lavoro di disporre la trasformazione del contratto da part time a tempo pieno contro la volontà del lavoratore.
Il Sole 24 Ore – 28 maggio 2014