La Stampa. I numeri parlano chiaro. Ieri i contagi da coronavirus hanno superato di poco le 42 mila unità e cala (ma questo dato sarà l’ultimo a scendere) anche il numero dei morti anche se non in modo così deciso. Da più parti arrivano sollecitazioni all’allentamento delle misure restrittive. Lo stesso governo ha dato il via libera ad una road map sulle riaperture. Ma a che punto è davvero l’Italia? E perché è diversa dagli altri Paesi? Facciamo il punto della situazione sulla base dei numeri.
Ci aiuta il fisico e docente all’Università di Trento Roberto Battiston, grande esperto dei numeri del Covid. «Le curve dovute ad Omicron stanno calando un po’ dappertutto nel mondo, indice di una probabile saturazione, ma il punto è anche un altro – spiega il fisico -: a che livello è arrivata la diffusione nei vari paesi durante il periodo Omicron?». È evidente – fa notare Battiston – «che ci sono paesi che hanno avuto una diffusione 3-4 volte più grande di altri».
I numeri che spiegano perché l’Italia non è ancora pronta
Il motivo? È legato al tipo di limitazioni che sono state introdotte «e non solo e non solo al numero di vaccinazioni somministrate». In altri termini: «Paesi che a parità di vaccinazione hanno cancellato il distanziamento sociale tra vaccinati e non vaccinati hanno pagato un conto più alto di contagi e in ultima analisi anche di casi gravi e decessi» ci spiega Barttiston.
E l’Italia, a che punto è oggi? Oggi in Italia le curve stanno scendendo, «anche se negli ultimi giorni la velocità di questa discesa è diminuita nettamente». I decessi settimanali stanno finalmente diminuendo, anche se sono ancora circa 300 al giorno. «Ci sono circa 1.400.000 persone in quarantena, e ogni giorno 40- 60.000 nuove infezioni. Insomma ne stiamo uscendo, ma la diffusione è ancora altissima e mi pare saggio accompagnare questa uscita con le cautele del caso» spiega Battiston. E ancora: «Dobbiamo ricordarci quanta fatica abbiamo fatto ad attivare le difese che ci permettono oggi di controllare la situazione. Allo stesso tempo dobbiamo ricordare quanto tempo ci si mette ad invertire una eventuale tendenza di ripresa. Non possiamo sostenere l’importanza di farci guidare dai numeri se alla prima occasione ce ne dimentichiamo». Insomma il 31 marzo scadrà lo stato di emergenza, ma questo non significa che se il governo decidesse di non prorogarlo (questa la decisione che quasi certamente verrà adottata) automaticamente non vedremo più contagi, casi in terapia intensiva e morti.
In virologia si utilizza l’espressione “Hammer and the dance”, martello e danza. Come per dire: c’è un momento in cui bisogna picchiare duro (quando la pandemia mostra il lato peggiore) e un momento in cui si può vivere serenamente. «A questo dobbiamo guardare – spiega il professore Roberto Cuada direttore dell’Unità operativa complessa (Uoc) di Malattie infettive del Policlinico Gemelli, revisore dei parametri Covid del governo e consigliere scientifico dell’Agenzia europea del farmaco – perché come abbiamo visto nel 2020 e poi nel 2021, con l’arrivo della bella stagione potremo quasi azzerare i casi di contagio». Questo, però, non significa che dovremo allentare la guardia. «Io credo che la strada che stiamo intraprendendo sia quella giusta, ma è necessario che si segua una certa gradualità nelle decisioni». Motivo: «Quello a cui noi dobbiamo ambire è che la parte del martello possa sparire per sempre».
Una malattia endemica
Ma cosa è cambiato rispetto alle estati di un anno fa e due anni fa, quando tutti pensavamo potesse essere l’ultimo respiro del Covid? Ci sono due elementi che hanno fatto la differenza: la campagna di vaccinazione e la presenza di Omicron 1 e Omicron 2. «Sì – spiega Cauda – perché il primo elemento ci ha permesso di difenderci dalle conseguenze gravi dell’infezione, mentre il secondo fattore ha permesso un contagio molto più diffuso nei numeri e fortunatamente meno grave. I due elementi combinati insieme hanno portato all’endemizzazione del coronavirus. O, almeno, questa è la direzione».
Quando torneremo ad una vita normale
Ci vorrà ancora tempo prima che si torni ad una vita normale. Probabilmente questa fase segnerà la fine dell’epidemia per come l’abbiamo conosciuta fino ad adesso, ma guai a darla per sconfitta. Un dettagliato studio americano ci dice che non arriveremo mai a dire che «il Covid 19 non esiste più». Potremo, infatti, neppure accorgerci della fine della pandemia. Non esiste un ora o un giorno “X” per cui non conteremo più i contagi. «Ci arriveremo per gradi, così come avvenuto in passato – spiega il professor Cauda – e via via allenteremo le misure e spariranno le restrizioni fin qui conosciute. Abbiamo esempi di altri Paesi che ci indicano la strada, come Israele e Regno Unito che per primo hanno allentato le stretta». E noi? «Ci arriveremo per gradi. Ma dubito che sarà saggio, ad esempio, abbandonare l’uso delle mascherine al chiuso. Io stesso, quando viaggerò in aereo o in treno o salirò su un autobus le indosserò a lungo, anche quando non sarà più obbligatorio». Un fatto, anche, di costume. «Un po’ come accadde in Cina e poi in tutto l’Oriente dagli anni Cinquanta in avanti. Molti di loro indossavano le mascherine. E quando vedevamo persone indossarle nelle nostre città le associavamo a persone malate. Le dico una cosa: indossando la mascherina, al di là del Covid, mi ha permesso di non prendere praticamente mai raffreddore o influenza». Non sono dettagli: in Italia ogni anni ci sono 8 milioni di contagi da influenza e 8 mila morti. Numeri, va detto, non trascurabili.