All’indomani dell’annuncio di Pfizer e BioNTech della loro prima sperimentazione clinica del vaccino aggiornato per neutralizzare il nuovo duo di varianti (BA.4 e BA.5 Omicron), Bruxelles ha chiuso un accordo con la statunitense Moderna per adeguare ancora una volta il suo calendario di consegne, rinviando a settembre e durante l’autunno-inverno la fornitura dei lotti inizialmente previsti per l’estate. Un’intesa che garantirà che «i Paesi abbiano accesso alle dosi di cui hanno bisogno al momento giusto per proteggere i cittadini», ha spiegato la commissaria europea per la Salute, Stella Kyriakides. E, soprattutto, che assicura alle capitali europee i primi 15 milioni di dosi adattate alle varianti. Previa, come di consueto, l’autorizzazione all’immissione in commercio da parte dell’Agenzia europea del farmaco (Ema).
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Attesa
Dunque l’attesa per i vaccini adattati alle ultime varianti del Covid-19 sta per terminare. All’inizio di un agosto i contagi nel Vecchio Continente si mantengono stabili – in media, intorno ai 350mila al giorno – ma la Commissione europea lavora senza sosta per farsi trovare pronta per la stagione fredda, quando la curva potrebbe rialzare la testa. E lo fa prima di tutto spostando in avanti di qualche settimana le consegne previste per l’estate con Moderna, per garantire che i Paesi abbiano le dosi necessarie quando più ne avranno bisogno, e poi iniziando a prenotare le prime dosi dei vaccini adattati alle varianti BA.4 e BA.5 Omicron. Prima, però, servirà l’autorizzazione dell’Agenzia europea del farmaco (Ema), la cui lente è, già da metà giugno, puntata sull’aggiornamento degli immunizzanti destinati a colpire sia il ceppo originale di SarsCoV2 che i successivi sottotipi.
Autunno
Le premesse rafforzano la speranza di affrontare la stagione fredda con nuove armi nel combattere una pandemia ancora lontana dal dirsi terminata. Nelle ultime 24 ore in Italia, secondo i dati del ministero della Salute, sono stati 43.084 i nuovi casi da Covid, contro gli 11.976 di ieri, con un tasso di contagio stabile al 15,8%. Le vittime sono 177, in aumento rispetto alle 113 di ieri, mentre sono 331 i pazienti ricoverati in terapia intensiva, 8 in meno rispetto a ieri, e 8.816 i ricoverati nei reparti ordinari, 236 in meno rispetto a ieri. Numeri che, tuttavia, sono destinati a tornare a salire con l’arrivo dell’autunno. Per questo, ha osservato Kyriakides, «gli Stati membri devono disporre degli strumenti necessari». BioNTech e Pfizer hanno annunciato in questi giorni l’avvio di una sperimentazione clinica per il vaccino aggiornato, puntando a «una protezione ampia e prolungata». E la stessa Moderna, con l’intesa raggiunta con Bruxelles, prevede di essere pronta per settembre. Quando saranno in arrivo anche oltre un milioni di dosi del vaccino sviluppato da Valneva. All’Ema, invece, spetta il delicato compito di tenere il passo con le nuove varianti garantendo al tempo stesso la massima sicurezza. «Le promesse non mi bastano», ha detto qualche giorno fa la direttrice dell’Agenzia Ue, Emer Cooke. Già a inizio luglio il responsabile della strategia per i vaccini della stessa Ema, Marco Cavaleri, aveva riferito che l’obiettivo è arrivare all’approvazione «a settembre». Al vaglio anche gli «approcci migliori alla vaccinazione per affrontare potenziali nuove ondate», tra cui un quadro simile a quello per l’influenza, con la somministrazione di richiami annuali.
Situazione
L’attuale circolazione di Omicron 5 che determina un elevato numero sia di casi di infezione che di reinfezione (attualmente oltre il 12%), fa sorgere nell’opinione pubblica la legittima domanda, quale sarà lo scenario futuro dei prossimi mesi (e forse dei prossimi anni) riguardo a COVID-19. Una possibile risposta a questa domanda coinvolge il ruolo del sistema immunitario che, come è noto, non solo protegge nei confronti dell’infezione/malattia acuta, ma conserva anche la memoria immunitaria a lungo termine che è in grado di contenere l’insorgenza di forme gravi di malattia e ridurre la circolazione degli agenti patogeni. Anche se SARS-CoV-1 e SARS-CoV-2 sono molto diversi dagli altri componenti la famiglia dei coronavirus, presentano comunque dei tratti comuni con i virus denominati HCoV che sono responsabili del comune raffreddore e di forme minori di malattia respiratoria, verso i quali il nostro organismo conserva una lunga memoria immunitaria. Per questo motivo, è noto che, mentre i bambini si ammalano frequentemente a seguito del contatto con i coronavirus del raffreddore, gli adulti che hanno una memoria immunitaria più efficace, tendono a contrarre questi virus del raffreddore molto più raramente, spesso con una ciclicità di diversi anni. A questo proposito, lo studio degli anticorpi e delle cellule T di adulti sani (Yu E.D e altri) ha permesso di identificare una reattività crociata tra HCoV e SARS-CoV-2 che potrebbe proteggere dalle forme gravi causate da quest’ultimo virus. Inoltre, se trova conferma che nei confronti dei coronavirus responsabili del comune raffreddore, l’immunità tende a crescere nella popolazione a seguito delle esposizioni e delle reinfezioni, è lecito ipotizzare che con l’aumento dell’immunità verso SARS-COV-2 di tipo vaccinale, naturale (a seguito dell’infezione) ed ibrida (infezione + vaccino), si verificherà una progressiva riduzione della gravità dei sintomi e delle forme gravi di malattia COVID-19. Del resto, contrariamente a quanto si poteva pensare all’inizio della pandemia, SARS-CoV-2 non è destinato a scomparire, come è avvenuto per SARS-COV-1 nel 2003, ma continuerà a circolare in modo endemico per un lungo tempo (oggi non quantizzabile) causando sempre meno forme gravi di malattia, a patto che ci sia una costante attenzione nei confronti della vaccinazione e dei suoi richiami che conferiscono un livello di protezione stabile.
In questa particolare fase della pandemia, ci si interroga sulla possibile diffusione, nei prossimi mesi invernali, di COVID-19 e sul ruolo che questo avrà nella circolazione di altri virus respiratori.
Diffusione di altre infezioni
A questo proposito, un editoriale ha ipotizzato che la pandemia COVID-19 può interferire con la diffusione di altre infezioni respiratorie, come del resto si è verificato nelle stagioni invernali 2021 e 2022, nel corso delle quali livelli elevati di COVID-19 hanno determinato misure stringenti di prevenzione, del tipo: distanziamento fisico ed uso mascherine. Questi provvedimenti hanno determinato tassi incredibilmente bassi di incidenza delle usuali infezioni virali respiratorie, compresa anche l’influenza. Inoltre, i lunghi periodi di lockdown e di restrizione della mobilità nei quali i virus respiratori non hanno circolato, hanno determinato una riduzione della risposta immunitaria negli individui esposti, il che si è tradotto in alcuni paesi, come in Australia, ad un aumento dei tassi di infezioni respiratorie e di influenza che hanno causato anche forme gravi di malattia. Contemporaneamente a ciò, c’è stata, in alcuni paesi, anche una preoccupante diminuzione della somministrazione dei vaccini antiinfluenzali, come negli Stati Uniti, dove oltre 9 milioni di adulti non si sono vaccinati, pur essendo di età superiore a 65 anni o con patologie sottostanti. Per questo motivo, in futuro, bisognerà attentamente valutare gli sviluppi della pandemia COVID-19 non solo per approntare idonee misure di contrasto nei confronti di questa, ma anche per comprendere meglio l’eventuale diffusione e/o co-circolazione dei virus respiratori. Un interessante articolo (Schwandt H e altri) ha analizzato la relazione esistente tra il livello di reddito e l’aspettativa di vita, prima e durante la pandemia COVID-19 in California. In questa analisi retrospettiva condotta su quasi 2 milioni di decessi avvenuti nel periodo 2015-2021, l’aspettativa di vita è diminuita da 81,4 anni nel 2019 a 79,2 anni nel 2020, e a 78,3 anni nel 2021. Inoltre, le differenze di aspettativa di vita erano maggiori nei soggetti con reddito più basso rispetto a quelli con reddito più alto. Gli autori di questa ricerca retrospettiva concludono che la riduzione dell’aspettativa di vita avvenuta nel 2020 e nel 2021, è anche correlata al livello del reddito e questo divario si è andato accentuando durante la pandemia COVID-19 rispetto al periodo pre-pandemico.
Impatto globale del vaccino
Uno studio di modellizzazione matematica (Watson O.J e altri) ha valutato l’impatto globale che il primo anno di vaccinazione COVID-19 ha determinato in termini di prevenzione della mortalità. Sulla base del numero di decessi per COVID-19 segnalati ufficialmente, si può stimare che la vaccinazione ha impedito il verificarsi di 14,4 milioni di morti in 185 paesi nel periodo 8 dicembre 2020 (inizio della vaccinazione) – 8 dicembre 2021. Questa stima sale a 19,8 milioni di decessi evitati, se si utilizzano i decessi in eccesso come stima del reale impatto della pandemia, indicando così una riduzione globale del 63% dei decessi totali durante il primo anno di vaccinazioni. Nei paesi del COVAX Advance Market Commitment (organizzazione che promuove l’accesso ai vaccini nei paesi a risorse limitate), è stato stimato che il 41% della mortalità in eccesso (7,4 milioni) sia stato evitato e che un ulteriore 45% dei decessi si sarebbe potuto evitare se il tasso di copertura vaccinale fosse arrivato al 20%; la riduzione sarebbe stata del 111%, se l’obiettivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del 40% dei vaccinati fosse stato raggiunto. Questi dati, frutto di un modello matematico, ma comunque molto aderenti alla realtà, indicano che la vaccinazione COVID-19 ha significativamente ed in modo positivo, modificato il decorso della pandemia salvando decine di milioni di vite a livello mondiale. Questo impatto positivo sarebbe stato ancor più significativo se nei paesi a basso reddito la vaccinazione avesse raggiunto percentuali più elevate di copertura, il che sottolinea la necessità di una maggiore equità nelle coperture vaccinali a livello globale.
Un recente studio condotto in Israele che ha coinvolto quasi 30.000 operatori sanitari (Cohen M.J e altri), ha indicato che la somministrazione della quarta dose del vaccino Pfizer riduce significativamente il rischio di infezioni da SARS-CoV-2, che sono state 6,9% in chi aveva ricevuto la quarta dose e 19,8 % nei vaccinati con la terza dose.
Dopo aver ricordato la lunga sequenza di esperimenti compiuti nel campo della vaccinazione a mRNA dai primi studi del 1987 fino ad oggi, una accurata riflessione (Storz U.) affronta il problema relativo ai diritti di brevetto ed al ruolo che questi possono avere nel limitare l’accesso ai vaccini nei paesi a risorse limitate. Viene in particolare discusso il possibile tallone d’Achille dei vaccini a mRNA che potrebbe rendere difficile l’acquisizione di nuovi brevetti se, ad esempio, l’mRNA del vaccino sia già stato divulgato pubblicamente, nel qual caso le autorità preposte ai brevetti potrebbero considerare questi nuovi vaccini non innovativi e non permettere quindi la brevettabilità.
Giusto equlibrio
Per questo è necessario un giusto equilibrio tra protezione brevettuale, incentivo essenziale per i ricercatori ed investitori per sviluppare nuovi vaccini e la necessità che questi vaccini, seppur protetti dal brevetto, possano essere resi disponibili anche per i paesi a risorse limitate.
L’analisi dei frammenti di spike può rappresentare un utile approccio per migliorare il rilevamento delle varianti di SARS-CoV-2. A questo proposito, è stata condotta l’analisi dei frammenti multiplex (CoVarScan) considerando 8 punti rilevanti per le mutazioni di SARS-CoV-2 (Clark A.E. e altri). Il test diagnostico, convalidato su 3.544 campioni respiratori clinici, ha evidenziato una sensibilità pari al 96% ed una specificità del 99% rispetto al sequenziamento dell’intero genoma. Tutte le varianti, inclusa Delta, Mu, Lambda ed Omicron, sono state rilevate in modo corretto, attraverso l’esecuzione di un test che ha fornito il risultato in meno di 4 ore. Gli autori dell’articolo concludono che l’analisi dei frammenti multiplex è rapida ed ha una precisione pari al sequenziamento dell’intero genoma per classificare le varianti di SARS-CoV-2 e per questo potrebbe trovare utile applicazione nella diagnostica routinaria.
Anticorpi monoclonali
Uno studio randomizzato in doppio cieco, anticorpo monoclonale versus placebo (Herman G.A. e altri), ha valutato l’efficacia e la sicurezza di una singola dose di casirivimab ed imdevimab per la protezione da COVID-19 per un periodo fino a 8 mesi. Lo studio è stato condotto prima dell’emergenza Omicron, negli Stati Uniti, Romania e Moldavia nel periodo 2020-2021 ed ha arruolato 2.317 partecipanti assegnati in modo casuale a anticorpo monoclonale o a placebo (841 all’anticorpo monoclonale e 842 al placebo). La protezione fornita dall’anticorpo monoclonale è stata maggiore nei primi mesi (2-5) con una riduzione del rischio relativo di infezione del 100%, l’efficacia si è poi ridotta nei mesi 7-8. La conclusione a cui giunge questo studio, condotto prima della circolazione delle varianti Omicron, è che questo tipo di anticorpo monoclonale protegge nei confronti di COVID-19 per un massimo di 5 mesi di esposizione ed è efficace nei confronti dei ceppi sensibili di SARS-CoV-2. E’ stata condotta un’analisi che ha messo in correlazione l’incidenza e la mortalità per COVID-19 in alcuni quartieri di Londra sulla in base dello status della vitamina D e dell’inquinamento atmosferico (Borna M e altri). Sono state in particolare considerati i seguenti parametri: caratteristiche urbanistiche, qualità dell’aria, dati demografici, incidenza e mortalità da COVID-19 in 32 distretti di Londra, tra marzo 2020 e gennaio 2021. È risultato che il numero di residenti di etnia asiatica, un inquinamento rilevato di PM medio pari a 10, lunghezza della strada, potevano positivamente correlare con il numero di casi e con i decessi da COVID-19. Al contrario, nelle famiglie che potevano contare su un accesso ad una area urbanistica aperta, si osservava un numero minore di decessi da COVID-19. Da questo studio emerge quindi che le variabili ambientali ed urbanistiche ed anche lo status della vitamina D, possono influenzare sia l’incidenza che la mortalità per COVID-19.
Vitamina C
Il ruolo della vitamina C somministrata per via parenterale nei pazienti COVID-19 gravi, è stato oggetto di una recente revisione sistematica (Agarwal A. e altri). A questo proposito sono stati analizzati e criticamente valutati gli studi randomizzati controllati che prendevano in considerazione l’impiego di vitamina C per via parenterale, sia in combinazione che in monoterapia, nei pazienti ospedalizzati con infezione grave da COVID-19. L’esito primario di questa revisione sistematica era rappresentata dalla mortalità. Sono risultati eleggibili 41 studi che presentavano la caratteristica di essere tutti randomizzati e controllati e, su questi, sono state condotte le analisi. È interessante notare che non è emerso alcun beneficio migliorativo della sopravvivenza a seguito della somministrazione di vitamina C per via parenterale ai pazienti con infezione grave. L’impatto della pandemia COVID-19 sulla esacerbazione dell’asma, è stato oggetto di uno studio di coorte retrospettivo (Syed Ahmar Shah e altri) condotto in oltre 500.000 pazienti provenienti da un data base nazionale inglese. I tassi di esacerbazione dell’asma sono stati sostanzialmente inferiori durante tutti i trimestri del 2020-2021 rispetto ai tassi del 2016-2019. Questo indica una riduzione sostanziale e persistente dell’esacerbazione dell’asma in tutta l’Inghilterra che sono riconducibili al cambiamento di comportamento che ha comportato la pandemia COVID-19, essendo altamente improbabile che ci siano stati altri fattori come ad esempio il miglioramento della qualità dell’aria o l’interruzione del Servizio Sanitario correlato alla pandemia stessa.
Cuore
Il rischio di insorgenza di fibrillazione atriale nei pazienti COVID-19 ospedalizzati, è stato oggetto di una ricerca retrospettiva condotta nell’ospedale Mass General Brigham negli Stati Uniti (Wollborn J e altri). In particolare, è risultato che i pazienti positivi al COVID-19 presentavano una maggiore probabilità di sviluppare fibrillazione atriale (1,19 volte superiore) rispetto ai pazienti negativi al COVID ed anche una maggiore probabilità (1,57 volte superiore) rispetto ai pazienti di pre-pandemia. Questo studio ha il merito di porre l’attenzione sul rischio di fibrillazione atriale sia in corso di malattia COVID-19 acuta che come sequela di questa e di conseguenza stimolare studi e ricerche per contrastare questa grave complicanza. Il long COVID è un’entità molto ben studiata e definita nell’adulto, mentre lo è meno nel bambino. Uno studio condotto in Danimarca (Kikkenborg Berg S e altri) ha valutato la prevalenza dei sintomi presenti, la durata e l’intensità degli stessi, la qualità della vita, il numero di giorni di malattia e di assenza dalla scuola, il distress psicologico e sociale dei bambini di età compresa tra 0-14 anni infettati da SARS-CoV-2, rispetto ai controlli di pari età, senza però storia di infezione. E’ emerso che i bambini che avevano avuto l’infezione, presentavano in percentuale maggiore sintomi di lunga durata rispetto ai controlli. Vi era anche una tendenza a migliori punteggi di qualità della vita nei pazienti non infetti e, per questo motivo, il long COVID deve essere riconosciuto anche come una patologia anche dell’età pediatrica per la quale è necessario prestare particolare attenzione.