A questa domanda non c’è, ancora, una risposta definitiva, ma alcuni punti fermi iniziano a emergere, perché essendo passati diversi mesi dalla prima ondata, ed essendo in corso la seconda, si possono valutare gli andamenti della risposta di chi si è ammalato in primavera. Non a caso si stanno moltiplicando gli studi. Capire a che punto siamo, comunque, non è facile. Spiega in merito Luca Guidotti, grande esperto di immunità, vice direttore scientifico dell’Ospedale San Raffaele di Milano, dove è anche ordinario di patologia generale, che sta conducendo studi sui modelli animali di Covid 19 nell’unico laboratorio P3 presente in Italia, per verificare che cosa succede in vivo: «Dobbiamo sempre tenere presente che fino a 10 mesi fa non conoscevamo questo virus, e che stiamo faticosamente iniziando a capire alcuni aspetti, ma ne restano moltissimi tutti da decrittare. Non sappiamo se si tratti di un virus che, una volta entrato nelle cellule dell’ospite (per esempio respiratorie o vascolari), le uccida direttamente, causando la malattia, oppure sia il sistema immunitario – e in primo luogo i linfociti T – a provocare la malattia, uccidendo le cellule. Non sappiamo poi se nell’organismo permangano tracce di virus, o se l’eliminazione di Sars-CoV 2 sia completa, una volta ottenuta la guarigione clinica. Queste distinzioni fanno una differenza enorme per le difese dell’ospite. A parte la famosa spike, inoltre, sappiamo ancora molto poco sull’identità e la funzione di numerose altre proteine (si pensa ce ne siano circa una trentina) che Sars-CoV 2 utilizza per replicarsi o per difendersi dall’attacco del sistema immunitario. Non abbiamo poi ancora idee nette sulle reazioni dell’organismo, al di là di un quadro generale. E la lista dei grandi punti interrogativi che riguardano la battaglia tra virus e l’immunità potrebbe continuare: c’è tantissimo lavoro da fare».
In questa nebbia, ci sono comunque alcuni fatti emersi da studi che, talvolta, sono di dimensioni tali da autorizzare a trarre conclusioni. Tra gli altri, nei giorni scorsi è stata pubblicata un’analisi sul personale medico dell’Ospedale Universitario di Oxford – circa 12.000 persone – che è stato controllato per 30 settimane. Su tutti i partecipanti, 1.200 avevano anticorpi specifici, e nessuno di loro, a oggi, si è re-infettato. Gli anticorpi (prodotti dai linfociti di tipo B e che prevengono l’ingresso dei virus nelle cellule) sarebbero dunque protettivi per almeno sei mesi. Pochi giorni prima ne era stato pubblicato su Science uno ancora più ampio, condotto su 30.000 persone dagli immunologi del Mount Sinai Hospital di New York. Anche in quel caso era emerso che circa il 70% degli infettati ha una produzione di anticorpi piuttosto sostenuta, e ancora visibile dopo cinque mesi.
Con gli anticorpi arrivano poi anche i linfociti T, che contribuiscono all’eliminazione del virus perché riconoscono e uccidono le cellule già infettate. Spiega Guidotti: «Ci sono ormai dati che indicano come la produzione di linfociti T ci sia e persista nel tempo, ma le informazioni sono ancora frammentarie, perché condurre questi studi è molto complicato. Per capire veramente quando, come e per quanto tempo i linfociti B e quelli T funzionino durante un primo o un secondo incontro con Sars-CoV-2, bisognerebbe studiare i linfonodi e i tessuti infettati, e questo è possibile solo nei modelli animali che da poco abbiamo generato e iniziato a utilizzare». Fin qui, dunque, la visione generale: il virus stimola la produzione di linfociti B e anticorpi, a cui si sovrappone spesso quella dei linfociti T: l’insieme dovrebbe eliminare il virus e assicurare l’immunità almeno per qualche mese.
Ma poi ci sono le eccezioni. Secondo un articolo appena uscito su Science, che fa il punto sulla situazione, a oggi i casi accertati di seconde infezioni, cioè di persone che hanno contratto due virus diversi geneticamente, sono 24, su quasi 60 milioni di contagiati. Ci sono però anche decine di segnalazioni di casi dubbi (50 in Olanda, 9 in Brasile, 150 in Svezia, 285 Messico, 243 in Qatar e altri). Come si spiegano? Risponde Guidotti: «Si pensa che si tratti di persone che hanno avuto una risposta debole alla prima infezione, con un titolo (cioè una concentrazione) di anticorpi basso, e la loro produzione sparisca dopo poche settimane, e quella di linfociti T non decolli. Ciò potrebbe esporre le persone alla riacutizzazione di un virus che non se ne è mai andato, o alla suscettibilità verso una seconda infezione, soprattutto nel caso si incontrino alte cariche virali. Ma, ancora una volta: dobbiamo vederci più chiaro».
A oggi si può dunque solo dire, con ragionevole certezza, che (quasi sempre) la risposta all’infezione naturale dura almeno 5-6 mesi, ed è realizzata da anticorpi e linfociti. Per il resto bisognerà attendere, anche se un dato autorizza a sperare: nel caso della Sars e della Mers le difese (soprattutto i linfociti T) resistono per diversi anni.