di Corinna De Cesare. Più che farsi avanti, le donne italiane continuano a farsi indietro. Altro che «Lean in», il manifesto femminista di Sheryl Sandberg datato ormai 2013 con cui la numero due di Facebook incitava le donne di tutto il mondo a non scegliere tra famiglia e lavoro. «Vivere in modo soddisfacente entrambe le dimensioni è possibile, ma per farlo dobbiamo prima di tutto vincere i nostri pregiudizi» scriveva la manager «dall’alto del suoi tacchi Prada» (insinuavano i detrattori).
Quattro anni dopo, mentre la Silicon Valley si scopre sessista, l’Italia conferma la sua immagine di paese in cui le donne che fanno figli battono in ritirata. Non solo sono poche quelle che hanno un lavoro (il 48,9% il dato record di ieri dell’occupazione femminile su base mensile contro una media europea del 62,5%), ma molte lo lasciano al primo figlio. Niente di nuovo, si dirà. Non proprio: se nel 2016 il 78% delle richieste di dimissioni convalidate dall’Ispettorato nazionale del lavoro ha riguardato le lavoratrici madri, ben il 40% delle domande è stato motivato dalla difficoltà di conciliare il lavoro con le esigenze di cura dei figli: un balzo del 44% sul 2015. E così mentre diminuisce (di poco), il numero totale delle madri che si dimette (-4% tra 2015 e 2016), sale quello che lo fa per motivi legati alla famiglia: 13.854 rispetto alle 9.572 del 2015. «Bisogna sottolineare — precisa Roberta Fabrizi, dirigente della direzione centrale Vigilanza Affari legali e contenzioso dell’Ispettorato del lavoro — che nel corso degli anni abbiamo cercato di affinare le motivazioni sui questionari di dimissioni e sono venute meno alcune risposte scelte in passato con superficialità come ripiego». Ma al netto di questa variabile, i dati «sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri» dell’Ispettorato del lavoro analizzano (involontariamente) anche i motivi alla base di un’occupazione femminile, in Italia, fanalino di coda in Europa. Delle oltre 27 mila domande di dimissioni presentate dalle donne l’anno scorso, il 40% lo ha fatto principalmente per tre ragioni: assenza di parenti di supporto, mancato accoglimento al nido ed elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato. «Questo dimostra che le politiche degli ultimi anni non sono riuscite a incidere sul passaggio fondamentale nella vita di una donna che è il diventare madre» spiega Paola Profeta, docente di Scienza delle Finanze della Bocconi. Tant’è che la gran parte dalle dimissioni ha interessato prevalentemente chi ha un figlio o è in attesa del primo.
Non solo: è netta la prevalenza di dimissioni nelle fasce di età comprese tra i 26 e i 35 anni e tra i 36 e i 45 anni, con una brusca frenata delle possibilità di far carriera. «Quello di lasciare il lavoro una volta diventate mamme è un fenomeno che esiste anche all’estero – precisa Profeta – ma mentre negli altri paesi spesso le uscite sono temporanee perché le donne rientrano in ufficio una volta che i figli sono cresciuti, da noi no. L’uscita dal mercato del lavoro diventa definitiva». Come mai? Troppo alto è considerato il sacrificio in termini economici e troppo bassa l’assistenza a supporto delle famiglie. Il mancato accoglimento al nido è la motivazione alla base delle dimissioni con il più alto incremento nel 2016 (+63%), dato che attesta la carenza di strutture.
Ma emergono anche, nel rapporto, motivazioni legate alla mancata concessione del part-time e organizzazioni del lavoro difficilmente conciliabili con la famiglia. Nella legge di Bilancio 2017 sono stati inseriti bonus asili nido, premi alla nascita e voucher baby sitting , oltre a un fondo di sostegno alla natalità e gli effetti, se ce ne saranno, si vedranno più avanti ma «manca – sottolinea Profeta – un investimento nelle politiche famigliari in maniera sostanziale». Basti pensare che in Italia la spesa sociale destinata alle famiglie è l’1,5% del Pil (secondo il Centro studi ImpresaLavoro). Da segnalare anche l’incremento delle dimissioni riferite ai lavoratori padri (+34% rispetto al 2015), fenomeno che pur essendo nei valori assoluti decisamente più limitato (7.560 casi), dimostra che la conciliazione è tutto fuorché una questione «femminile».
Corriere della Sera – 3 ottobre 2017