La favola del Servizio sanitario nazionale più povero ma anche più efficiente di tutti non regge più. Perché a furia di tagliare in fatto di aspettativa di vita scendiamo in un solo anno da un invidiabile terzo posto conquistato nel 2020 al nono dell’anno successivo, mentre eravamo al quarto nel 2019, prima della pandemia. Restano poi elevatissimi i decessi causati dall’inquinamento e in fatto di spesa per la sanità siamo sempre più nei bassifondi della classifica, con un esborso pro-capite a parità di potere d’acquisto di 4.291 dollari, che sono meno dei 4.986 della media di tutti paesi occidentali e rappresentano appena la metà degli 8 mila messi sul piatto dai tedeschi e un terzo in meno dei 6.630 dollari dei francesi. Gli spagnoli ci superano di poco con 4.432 dollari. Ampiamente sotto gli standard siamo anche in fatto di dotazione sia di infermieri sia di posti letto negli ospedali.
È la fotografia scattata dalla nuova edizione appena pubblicata di Health at a Glance dell’Ocse.
In quanto a speranza di vita l’Italia scivola al nono posto della classifica con una media di 82,7 anni, insieme al Lussemburgo, a fronte di una media Ocse di 80,3. Sopra l’Italia troviamo Giappone (84,5), Svizzera (83,9), Corea del Sud (83,6), Australia (83,3), Spagna (83,3), Norvegia (83,2), Islanda (83,2) e Svezia (83,1). Sopra la media siamo invece per la mortalità evitabile. Come a dire che non tutto è perduto.
Il dato ovviamente non migliora in rapporto al Pil. L’Italia destina il 9% del Pil alla sanità, una quota leggermente al di sotto della media Ocse del 9,2% ma ancora una volta di molto inferiore rispetto a Germania (12,7%) e Francia (12,1%). E parliamo di spesa sanitaria complessiva, ossia compresa quella privata, sostenuta direttamente dai cittadini. Perché in termini di spesa pubblica va ancora peggio, con il 6,8% del Pil che nel 2022 colloca l’Italia al sedicesimo posto della classifica dei Paesi occidentali.
Quanto al numero di operatori sanitari in rapporto agli abitanti, l’Italia conferma di avere una buona quantità di medici ma una forte carenza di infermieri. Nel nostro Paese si contano infatti 4,1 medici ogni 1.000 abitanti, dato superiore rispetto alla media Ocse di 3,7, ma soli 6,2 infermieri a fronte di una media Ocse di 9,2 per 1.000 abitanti. Anche se c’è da dire che il rapporto non considera la carenza dei camici bianchi per specialità, che da noi vede quelle con poche opportunità di attività libero professionale con un numero di medici nettamente inferiore al fabbisogno.
Molto male anche la dotazione di posti letto ospedalieri. L’Italia ha 3,1 posti letto ospedalieri per 1.000 abitanti, la media Ocse è di 4,3. La Germania ne ha ben oltre il doppio (7,8) e anche la Francia quasi doppia il dato italiano (5,7).
Pochi soldi più carenza di medici e infermieri uguale a meno qualità delle cure nei nostri ospedali. A calare i freddi dati dell’Ocse dentro la realtà delle nostre corsie è un’altra indagine, quella realizzata dall’Agenas, l’Agenzia pubblica per i servizi sanitari regionali. A sorpresa, gli ospedali privati in termini di qualità battono infatti quelli pubblici 27 a 9, che sono le percentuali delle strutture considerate di livello alto o molto alto.
Nella cura delle malattie del sistema nervoso centrale invece preoccupa quel 48% di ospedali pubblici con una qualità bassa o molto bassa al Sud e nelle Isole. Molto peggio vanno le cose se si guarda alle patologie del sistema respiratorio, dove si registra il tracollo del pubblico, con il 52% delle strutture di qualità scadente o molto bassa al Nord, il 58% al Centro e ben il 78% al Sud, mentre il privato fluttua tra il 30 e il 33% di bocciature, limitate al 21% delle strutture meridionali. Più equilibrati i valori nella chirurgia generale, dove bocciate sono il 37% delle strutture pubbliche settentrionali contro il 43% del privato.
Nella chirurgia oncologica gli ospedali pubblici che vanno male o malissimo sono il 42% al Nord, il 15% al Centro e il 44% al Sud. Percentuali che diventano rispettivamente del 33, 36 e 32% quando parliamo di privati. Che però si concentrano di più nelle attività redditizie, come le protesi d’anca o di ginocchio, che non su quelle come l’emergenza e urgenza che rendono poco.