Il 21 luglio scorso la Spagna ha comunicato di aver identificato e isolato un caso di febbre emorragica della Crimea-Congo, una zoonosi causata dal virus CCHF, potenzialmente fatale e che, se non adeguatamente gestita, può dare luogo a focolai epidemici. Nessun allarme, comunque: si tratta di una malattia conosciuta fin dal 1944, di cui sporadicamente compaiono casi anche in Europa e che può essere contenuta in modo efficace. Ma come si contrae? Quali sono i sintomi? Esiste una cura?
Si tratta di un un’infezione causata dal virus CCHF, un patogeno appartenente al genere Orthonairovirus. È così chiamata perché il primo caso fu descritto in Crimea nel 1944 mentre il virus fu isolato in Congo qualche anno più tardi. I sintomi sono molto vari: molti casi rimangono asintomatici oppure si manifestano lievi sintomi tipici delle infezioni virali (febbre, mal di testa, dolori), ma una certa quota di pazienti può sviluppare una forma grave di malattia, con febbre alta, vomito, diarrea, sbalzi d’umore o confusione, fino a manifestazioni emorragiche e a deficit multiorgano. Nei casi gravi il tasso medio di mortalità è del 30%.
In genere il virus è trasmesso attraverso il morso di una zecca, principalmente quelle appartenenti al genere Hyalomma, ma anche il contatto con animali infetti (come bovini, capre, pecore) e con sangue e fluidi di persone malate può causare il contagio. Le infezioni ospedaliere sono più rare, ma possibili, soprattutto se non vengono rispettati i protocolli di igiene e sicurezza per la gestione dei casi. Proprio per le modalità di trasmissione, le persone più a rischio sono i cacciatori, gli allevatori, il personale dell’industria della macellazione e anche il personale sanitario.
Più diffusi in Africa e in Asia, i diversi lignaggi del patogeno della febbre emorragica della Crimea-Congo sono presenti anche in Europa nell’area dei Balcani e in Spagna (dove si erano già verificati casi nel 2013 e nel 2016), in Russia e in Turchia. Si stima che nel mondo si verifichino tra le 10mila e le 15mila infezioni ogni anno, di cui 500 fatali.
Il periodo di incubazione della malattia va da 1 a 14 giorni, a seconda delle modalità di contagio e probabilmente dal lignaggio del virus. Se si è stati morsi da una zecca infetta, la comparsa eventuale di sintomi è precoce rispetto a quando il contagio avviene attraverso il contatto con sangue o fluidi infetti. Secondo l’European center for disease prevention and control (Ecdc), comunque, l’80% dei casi rimane asintomatico o manifesta lievi sintomi. Nei casi gravi, invece, vi è una escalation dei sintomi che conduce a una progressiva permeabilità dei vasi (per questo le emorragie) e a reazioni estreme del sistema immunitario (tempesta di citochine) che possono danneggiare in modo serio l’organismo fino a compromettere la funzionalità degli organi e provocare la morte. In questi casi la malattia si presenta con una febbre alta improvvisa, mal di testa, dolori muscolari, sensibilità alla luce, dolori addominali, diarrea e vomito, talvolta aggressività o confusione. Possono comparire manifestazioni cutanee come petecchie, epistassi e ecchimosi. Gli organi che vengono compromessi dal virus sono in primis fegato e milza, ma anche altri organi possono essere colpiti, fino all’insorgenza di insufficienza epatica e renale. La mortalità media in questi casi è del 30%, e chi sopravvive comincia a star meglio dopo 9-10 giorni dall’esordio della malattia.
Una diagnosi precoce con test di laboratorio è fondamentale per cercare di preservare la vita del paziente e per attivare le misure per prevenire l’espandersi di un focolaio epidemico. Non ci sono terapie antivirali mirate per la febbre emorragica della Crimea-Congo, per cui la gestione clinica consiste nel monitoraggio delle condizioni del paziente e nel supporto delle funzioni vitali con la somministrazione di fluidi e elettrolitici, cercando di contenere le emorragie. Secondo le autorità sanitarie somministrare ribavirina (un antivirale ad ampio spettro) dopo la comparsa dei primi sintomi può aiutare a prevenire infezioni più gravi. Non c’è un vaccino, ma come profilassi post esposizione o trattamento sono in studio strategie con l’antivirale favipiravir e con immunoglobuline ricavate da pazienti convalescenti, con risultati promettenti.
WIRED