Nell’agenda quotidiana della Corte dei conti ci sono i “furbetti del cartellino” e le “rimborsopoli” dei consiglieri regionali, giusto per citare le etichette giornalistiche di due fenomeni che occupano periodicamente le cronache, ma anche appalti pilotati, assunzioni senza titolo e finanziamenti illegittimi. Basta un esposto, magari di un consigliere di opposizione attento ai documenti, e il processo contabile parte e, se c’è sostanza, arriva puntuale alla condanna. Le sentenze dei giudici dei conti sono fatte di numeri, perché misurano il «danno erariale», cioè i soldi persi dalla Pa a causa del comportamento illegittimo di dipendenti e amministratori pubblici, e ne impongono la restituzione. In teoria, però, perché i condannati non pagano quasi mai.
Negli ultimi cinque anni, le condanne definitive pronunciate dai magistrati contabili hanno accumulato un tesoro da 1,69 miliardi di euro. Nelle casse degli enti pubblici danneggiati, però, sono arrivati solo 272,9 milioni. In pratica, 84 euro ogni 100 di danno sono passati in cavalleria. Solo quattro Regioni (Valle d’Aosta, Liguria, Sicilia e Veneto) mostrano un tasso di recupero quasi pieno, ma la grande maggioranza riesce a raccogliere solo quote minime: il Lazio, dove si concentrano le sedi delle amministrazioni e i giudizi d’appello, conta la metà dei danni erariali mentre gli incassi si fermano al 9,3%, per inabissarsi vicino allo zero in Sardegna, Marche, Molise e Abruzzo.
Incassi in flessione
I numeri si incontrano nella relazione scritta dalla Procura generale per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, che la settimana scorsa ha visto l’insediamento del nuovo presidente della Corte, Angelo Buscema, e del procuratore generale Alberto Avoli. Le cifre offrono anche il censimento sugli effetti del primo anno operativo della riforma della Corte dei conti, approvata ad agosto del 2016 (con Dlgs 174) in attuazione della riforma Madia . Effetti per ora più che modesti.
Ma andiamo con ordine. Il panorama non è ancora completo, perché con le nuove regole i responsabili del procedimento di riscossione hanno tre mesi di tempo per inviare alle procure regionali i dati sui tentativi di recupero messi in campo, per cui il quadro sul 2017 si definirà dopo marzo. Ma non è ipotizzabile un’accelerazione tale da modificare un dato calcolato su un orizzonte ampio come gli ultimi cinque anni, tanto più che la tendenza è chiara. Nella relazione del 2017 lo stesso conteggio, relativo al periodo 2012-2016, indicava un tasso di riscossione del 29%, al netto della maxi-condanna del 2012 ai gestori delle slot machine che hanno poi sfruttato il condono per chiudere il dossier pagando un quarto della condanna. Nel primo anno post-riforma, insomma, la macchina sembra andare indietro.
Il difetto
Certo, in cinque anni le variabili in gioco sono tante, e dipendono dal tipo di condanne intervenute nel periodo e soprattutto dall’impegno reale delle amministrazioni colpite nei tentativi di recuperare il maltolto. Un fatto però è certo: l’avvio della riforma non ha accelerato gli incassi. E, a ben vedere, non avrebbe potuto farlo.
Il vizio, denunciato a più riprese dai magistrati contabili, è nel cuore del meccanismo, che affida allo stesso ente danneggiato il compito di farsi restituire l’importo del danno. Questo crea in molti casi in conflitto di interessi perché, quando l’autore del danno condannato dalla Corte dei conti è un dipendente, magari con un ruolo dirigenziale, la riscossione non arriva esattamente in cima all’agenda delle priorità. E questo aggrava il problema di fondo, dovuto al fatto che gli enti pubblici dove si annidano i danni erariali non sono in genere ai vertici delle classifiche di efficienza e trasparenza.
Intervento a metà
Dopo un serrato confronto tecnico, la riforma ha scelto di non affrontare di petto la questione, affidando alla Corte la responsabilità diretta delle riscossioni. In cambio, l’accento è stato messo su responsabilità e controlli, affidando ai procuratori «la titolarità del potere di esercitare la vigilanza sulle attività volte al recupero del credito erariale». L’amministrazione danneggiata ha un «responsabile del procedimento», che dovrebbe occuparsi del recupero delle somme, e che ogni anno, entro tre mesi dalla chiusura dell’esercizio, deve mandare alla Corte un «prospetto analitico» che dia conto dei tentativi di riscossione caso per caso. Ma le leve restano in mano all’amministrazione: e, senza un cambio effettivo di poteri, i prospetti rischiano solo di certificare, analiticamente, un fallimento.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 19 febbraio 2018