di Paola Ferrari. Secondo i magistrati contabili non si può giudicare la condotta dei clinici sulla base di protocolli successivi. Non c’è pace per i ginecologi e i neonatologi che si trovano quotidianamente ad affrontare problemi difficili e, contemporaneamente, a difendersi da accuse, a volte infondate, di malpractice. Il testo della sentenza
Se ne è occupata di recente la Corte dei conti della Calabria (sentenza n. 379/2013 del 12 dicembre), in un caso in cui nove camici bianchi si sono trovati a controbattere alla richiesta di pagare 813.019,94 euro sborsati da una Asl a seguito di una transazione successiva alla sentenza civile di primo grado non appellata, giudizio nel quale non erano mai stati coinvolti.
In sintesi i fatti: il 17 maggio del 1994 una donna venne ricoverata in ostetricia per «gestosi in gravida alla 34esima settimana» ma il successivo 21 maggio fu dimessa per essere nuovamente ricoverata l’8 giugno dove le veniva praticato un parto cesareo. Il bimbo, secondo l’accusa e la ricostruzione fatta dal Ctu in sede civile, venne ricoverato tre giorni dopo la nascita in terapia intensiva per segni di sofferenza fetale in nato pretermine da taglio cesareo, che determinò una «cerebropatia pre-perinatale con ritardo motorio e cognitivo, tetraplegia» e la totale invalidità psico-fisica.
I medici, convenuti nel giudizio erariale, contestarono la ricostruzione dei fatti e rilevarono che, proprio a causa del loro mancato coinvolgimento in sede civile, la ricostruzione tecnica fosse lacunosa in quanto basata sulla cartella prodotta dagli attori priva di pagine decisive. Stigmatizzarono, inoltre, il fatto che la struttura fosse priva o insufficientemente coperta da assicurazione.
La Corte interpellò allora l’Ufficio medico legale presso il ministero della Salute al fine di indagare i fatti, anche alla luce delle linee guida esistenti all’epoca. I tecnici esclusero qualsiasi ipotesi di sofferenza all’atto della nascita (escludendo dunque omissioni dei medici tra i due ricoveri), sostenendo che il danno fu conseguenza di ragioni estranee all’opera dei sanitari. Affermarono, inoltre, che nel maggio 1994 «non esistevano linee guida né nazionali né internazionali né per le gravidanze patologiche, né sul monitoraggio e management dell’ipertensione in gravidanza, né sulla gestione del feto piccolo per l’età gestazionale» né, infine, «per lo screening dei ritardi di crescita intrauterina». Assenti anche i protocolli medici: le prime linee guida sulle gravidanze patologiche arrivarono nel 2003, quelle per i ritardi di crescita del feto risalgono al 1996.
Valutazione contestata dalla Procura, secondo la quale erano comunque note conoscenze sulla diagnosi di ritardo di crescita intrauterino, come si poteva evincere negli atti del Congresso nazionale Sieog del 1994. Tesi respinta dalla Corte, secondo la quale i meri lavori di un congresso non possono assurgere a rango di linee guida e, comunque, gli atti furono pubblicati successivamente all’evento. Ma è difficile che la questione si fermerà al primo grado di giudizio.
Il Sole 24 Ore sanità – 6 gennaio 2013