L’aumento della pena massima è una scorciatoia, bisogna agire sui meccanismi di calcolo delle scadenze
Le proposte di riforma elaborate dal ministro della Giustizia Paola Severino in materia di contrasto alla corruzione sembrano un catalogo di buone intenzioni. I temi sui quali intervenire ci sono più o meno tutti: dalla riscrittura della concussione all’introduzione di nuovi reati come il traffico d’influenze illecite o la corruzione tra privati, passando per un aumento delle pene che dovrebbe tornare utile ad un allungamento della prescrizione. Nel merito però, la bozza predisposta dal Guardasigilli per dare un senso alla repressione del malaffare economico mostra delle debolezze che sarebbe meglio correggere prima che sia trasformata in legge. Non sarà facile, visto il clima politico che s’è creato intorno all’argomento, ma provarci è indispensabile. Il nodo principale resta quello della prescrizione nei processi per corruzione, più volte segnalato dagli organismi europei. Attualmente è di sette anni e mezzo, un periodo troppo breve per procedimenti complessi che molto spesso vengono avviati a diversi anni di distanza dai fatti, quando il conto alla rovescia dei tempi della giustizia è già un bel pezzo avanti. Con l’aumento del massimo della pena previsto dalla bozza Severino, portato da cinque a sette anni, il termine della prescrizione si sposta in avanti di un anno e poco più, arrivando a 8 anni e nove mesi. Troppo poco, sostengono gli addetti ai lavori che hanno a che fare con questo genere di processi. La realtà è che per incidere davvero sulla prescrizione bisognerebbe intervenire sui meccanismi con cui se ne calcolano le scadenze, e non attraverso la scorciatoia dell’aumento della pena massima, che comunque non potrà mai arrivare oltre certi limiti. Quello è un escamotage col quale non si può pensare di raggiungere i risultati che servirebbero per non rendere inutili i giudizi sulla corruzione. Sarebbe necessario superare i veti che su questo punto arrivano soprattutto dal centrodestra, ma è probabile che si riveleranno insormontabili, depotenziando alla radice i tentativi di soluzione del problema. Dal reato di concussione viene eliminata l’ipotesi dell’induzione, che è attualmente presente nel codice penale ed è stata contestata a Silvio Berlusconi nel processo milanese sul «caso Ruby»; al suo posto viene introdotta una nuova fattispecie, l’«indebita induzione a dare o promettere utilità», con pena massima (e conseguente prescrizione) un po’ più bassa. Difficilmente, però, l’ex presidente del Consiglio può pensare di beneficiarne evitando di arrivare alla sentenza. I nuovi reati per colpire i mediatori degli affari illeciti e la cosiddetta «corruzione privata» sono significativi, sebbene prevedano pene poco più che simboliche, e l’insieme della bozza dà l’idea della ricerca del compromesso tra le posizioni del centrodestra e del centrosinistra. E una necessità, e nei testi prodotti finora se ne sente il peso. Il tentativo auspicabile, di qui alla formalizzazione delle modifiche da proporre e poi in Parlamento durante l’iter di approvazione, sarebbe evitare che il compromesso partorisca una riforma solo di facciata, che non incida sulla possibilità di reprimere in maniera adeguata un fenomeno da tutti considerato al pari di una piaga nazionale. Anche la nuove norme pensate dal ministro sulla responsabilità civile dei magistrati paiono frutto di un compromesso. Ma in quel caso l’esclusione dell’azione diretta contro i giudici da parte dei cittadini che si lamentano delle loro decisioni (introdotta dal famoso emendamento leghista approvato dalla Camera qualche mese fa), sembra un obiettivo raggiunto. E le contropartite concesse al centrodestra potrebbero risultare accettabili dagli stessi magistrati e dalle forze politiche che più ne sostengono le ragioni. Sarebbe un passo avanti significativo se su questi temi che riguardano la materia incandescente della giustizia — foriera di divisioni e scontri dall’inizio della legislatura — non si riaccendessero le contrapposizioni del passato, e se i veti incrociati non bloccassero l’opportunità di intervenire per arrivare a soluzioni efficaci. Forse è un’illusione, anche perché c’è in agguato il terzo capitolo dell’ipotetico «pacchetto», quello delle intercettazioni, sul quale l’accordo non pare semplice; e qualora ci si arrivasse bisognerebbe sorvegliare che a rimetterci non fosse la libertà d’informazione e il diritto a essere informati. Tuttavia, a vent’anni da Mani Pulite, sarebbe importante non perdere l’occasione offerta dalla buona volontà mostrata dal ministro della Giustizia.
Corriere della Sera – 13 aprile 2012