Un anno fa, di questi tempi, le Camere approvavano il cosiddetto collegato lavoro (la legge 183/2010). La sanatoria voluta dal passato Governo. Scopo della riforma era quello di rendere molto più difficile l’impugnazione dei contratti atipici, introducendo tempi strettissimi per far valere i propri diritti. Una volta scaduto il contratto, se questo non viene impugnato entro 60 giorni, addio diritti, appunto. La norma del collegato lavoro, entrata in vigore il 24 novembre 2010, è stata di fatto congelata con il decreto mille proroghe fino al 31 dicembre 2011. Ciò significa che i lavoratori i cui contratti a termine sono già scaduti hanno tempo fino al 31 dicembre 2011 per impugnarli.
La vecchia normativa garantiva invece anni di tempo a chi intendeva fare causa al suo ex-datore di lavoro: con il Collegato lavoro, visto che l’arco di tempo entro il quale si può fare causa al proprio datore di lavoro si accorcia appunto a 60 giorni, o ci si muove per tempo, o dopo non si può più rivendicare alcunché.
E fin troppo facile immaginarsi i dubbi amletici di chi vive sotto il ricatto perenne del rinnovo: “Se impugno il contratto non me lo rinnovano più, ma se poi non lo rinnovano non posso più impugnarlo?” . Tra l’altro la riforma prevede che, anche nel caso fortunato che un lavoratore riesca a ottenere la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, ci sia un tetto al risarcimento massimo che il datore di lavoro può essere condannato a pagare. A prescindere da quanto tempo il lavoratore sia rimasto disoccupato per colpa del comportamento illegittimo del padrone, il risarcimento massimo sarà di dodici mesi di stipendio. Quest’ultima norma si applica pure alle cause in corso.
Dal 31 dicembre acquistano efficacia i nuovi termini di impugnazione del licenziamento
Da diritto.it 20 dicembre 2011
Diventano efficaci a decorrere dal 31 dicembre di quest’anno, le disposizioni del collegato lavoro (L. n. 183 del 2010), che stabiliscono un nuovo termine di decadenza per contestare i licenziamenti: la denuncia andrà fatta entro 60 giorni e dovrà essere seguita dalla presentazione del ricorso al giudice o dalla richiesta del tentativo di conciliazione nei successivi 270 giorni.
La fase giudiziale dunque, deve essere avviata nel termine massimo di 330 giorni. La ratio sottesa è quella di contrastare quei comportamenti dilatori che, attraverso una tardiva instaurazione delle controversie, mirano ad ottenere una maggiore liquidazione dei danni.
La data del 31 dicembre, si ricorda, è quella differita dalla L. 10/2011, di conversione del D.L. 225/2010 (decreto milleproroghe), che ha inserito il nuovo comma 1-bis, nell’articolo 32 del collegato lavoro citato. Precisamente il comma in parola stabilisce che: «In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011».
Il nuovo regime temporale di impugnazione vale per i licenziamenti e per tutte le fattispecie
(diverse dal licenziamento) a cui il collegato ha esteso il doppio termine di decadenza. Quindi i contratti a termine, ma anche i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, i trasferimenti, i rapporti di somministrazione, le cessioni di azienda.
Dal 31 dicembre prossimo, dunque, il licenziamento dovrà, come prima, essere impugnato (anche stragiudizialmente) entro 60 giorni, ma l’impugnazione diventerà inefficace se non seguita, nei successivi 270 giorni, dal deposito del ricorso al giudice (o dalla richiesta di arbitrato o di conciliazione). Prima di tale data i licenziamenti impugnati saranno soggetti (come prima della modifica introdotta dal collegato lavoro) al solo termine prescrizionale di 5 anni
20 dicembre 2011