La nave sembra andare e, dopo i dati di Pil e consumi, arrivano anche le cifre sui nuovi posti di lavoro creati nei primi sette mesi dell’anno, da gennaio a luglio, in vigenza dunque del contestato Jobs act e degli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato. Ebbene, secondo le cifre diffuse dall’Inps nel suo periodico “Osservatorio sul precariato”, i nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato, cioè posti potenzialmente fissi, sono stati in Italia 1.093.584 ovvero 286.126 in più (il 35,4 per cento) rispetto allo stesso periodo del 2014 quando non c’erano incentivi.
Inoltre c’è stato il fenomeno della trasformazione dei posti di lavoro a termine e apprendisti in posti fissi dovuta alla convenienza degli sconti: i posti trasformati da tempo determinato a indeterminato sono stati 388.194 cioè circa 114 mila in più (+41,6 per cento) rispetto allo scorso anno. Se si tolgono, come è giusto fare cessazioni e licenziamenti pari a 17 mila nei sette mesi in questione, la somma tra nuovi posti e trasformazioni in contratti fissi, fa 382.672 posti in più nei primi sette mesi del 2015 rispetto allo scorso anno (ovvero il 263,6 per cento rispetto all’anno passato quando i posti di lavoro si perdevano) .
Se si guarda l’andamento del mercato del lavoro relativamente ai soli nuovi posti a tempo indeterminato con un dato complessivo al netto delle cessazioni e dei licenziamenti si evidenzia un incremento simile nei primi sette mesi del 2015, rispetto allo stesso periodo del 2014: 235.524 posti in più, ovvero il 50 per cento, infatti nel 2014 i nuovi posti erano stati 470 mila e quest’anno 706 mila.
Esulta il governo: «Più diritti e meno precariato, come promesso », scrive Renzi, su twitter. «L’autunno non sarà caldo », commenta Santini del Pd e di «giusta direzione» delle politiche del governo parla il Pd Colaninno.
Resta caldo intanto il fronte pensioni, con il governo diviso dopo il «no» di Renzi a nuovi impegni di spesa per la flessibilità in uscita e il «no» del ministero dell’Economia a nuovi fondi per esodati e opzione donna. Ieri il sottosegretario all’Economia Zanetti è tornato a ribadire che la flessibilità si può fare solo ad invarianza di gettitto e dunque sarà fuori dall’agenda della legge di Stabilità. Gli schemi di intervento fino ad oggi esaminati richiedono invece risorse: la proposta Damiano con ritiro a 62 anni, con 35 anni di contributi, con con una decurtazione del 2 per cento annuo per un massimo di quattro, costa una forchetta dai 4 agli 8 miliardi secondo le stime. Un’altra proposta, di natura tecnica, prevede invece la possibilità di uscire sempre a 62 anni ma con una penale rappresentata dal ricalcolo parziale dell’assegno con il metodo contributivo invece che con il retributivo pro-quota: in questo caso la penalizzazione annua andrebbe, a seconda delle stime circolate, dal 3 al 30 per cento ma gli oneri per le casse dello Stato sarebbero inferiori.
Lo stallo sulla vicenda rischia di fermare anche opzione donna ed esodati. Ieri la sottosegretaria all’Economia Paola De Michelis ha detto che la discussione su «opzione donna» ed esodati «non è ancora chiusa». Il Tesoro dunque non chiude tutte le porte e si affida a prossime valutazioni: la possibilità per le donne di andare in pensione a 57 anni e tre mesi, con 35 anni di contributi, rispetto a 63 anni e 7 mesi come prevede la Forneso, è scaduta nel novembre 2014. Il costo è un taglio dell’assegno, calcolato con il contributivo, del 30 per cento, mentre per le casse dello Stato con l’esstensione fino al 2023 il peso secondo l’Inps sarebbe di circa 2 miliardi.
Caldo anche il fronte esodati. Il costo necessario per il settimo intervento di «rammendo» della riforma Fornero per 25 mila lavoratori è di circa 500 milioni. La spesa per il salvataggio di 170 mila lavoratori è stata di 9 miliardi sui 12 a disposizione. L’idea del governo di incamerare i 3 miliardi, compresi i 500 milioni, ha dunque scatenato il caos.
Repubblica – 11 settembre 2015