Il governo riscrive il decreto Poletti. Quello che nel 2014 ha liberalizzato i contratti a termine, esplosi dopo la fine degli incentivi al tempo indeterminato. Al punto che quest’anno 7 assunzioni su 10 sono precarie. Palazzo Chigi corre dunque ai ripari sul finire di legislatura. Con un emendamento alla manovra, che sarà depositato oggi in commissione Bilancio della Camera, riduce i rinnovi possibili da 36 a 24 mesi. E le proroghe da 5 a 3. Criteri restrittivi, sgraditi a Confindustria. Che però in cambio ottiene due cose. Intanto, un’entrata in vigore soft: le nuove norme si applicheranno solo di qui in avanti, non toccheranno i contratti in essere, soggetti alle vecchie regole, la cui durata quindi potrà spingersi fino ai 3 anni. Seconda concessione, resta la “ acausalità”: le imprese continueranno ad assumere senza indicare il motivo dell’assunzione. Ovvero la mansione assegnata, così spesso cambiata in corso d’opera e in passato motivo di forte contenzioso giudiziario.
« Modifiche importanti, ma che non basteranno a invertire la tendenza», riflette Francesco Saraceno, economista a Science Po di Parigi e alla Luiss di Roma. « Non si scoraggia a sufficienza l’uso di forme contrattuali precarie e dei fast jobs. E non si riequilibra il mercato del lavoro a favore di rapporti a tempo indeterminato, verso cui un’economia sana dovrebbe direzionarsi per avere flussi di consumo stabili delle famiglie e anche maggiore propensione delle imprese agli investimenti e all’innovazione. Obiettivi impediti anche da un costo del contratto a termine non reso sufficientemente elevato. Tema su cui in Francia si discute molto, dopo l’entrata in vigore della Loi Travail». Secondo uno studio della Uil, il contratto a tempo dovrebbe costare il 10% in più dell’indeterminato – e non solo il 6% come oggi – per dirottare gli imprenditori verso assunzioni più stabili. Perché a quel punto userebbero i contratti a scadenza solo per esigenze stagionali o picchi di produzione. Mentre negli altri casi risparmierebbero oltre 2.300 euro annui, su uno stipendio medio. « I dati ci dicono che quando gli sgravi si riducono o cessano, i contratti temporanei crescono » , ragiona Guglielmo Loy, segretario confederale Uil. « È quindi soprattutto una questione di costo del lavoro su cui occorre intervenire per colmare il gap tra flessibilità e precarietà, da una parte, e stabilità lavorativa dall’altra».
D’altro canto i contratti a tempo che oggi superano i 2 anni di durata sono solo il 10% del totale. Quelli che vanno oltre le 3 proroghe appena il 5%. Anche se – spiegano i tecnici di Palazzo Chigi – rappresentano il 20% delle ore lavorate totali. Un modo per dire che la modifica del decreto Poletti non è comunque vana. I nuovi dati resi disponibili dal primo Rapporto unitario sul lavoro – firmato da Istat, Inps, Inail, Anpal, ministero – dicono però che nel 2016 ben 4 milioni di italiani hanno lavorato con i fast jobs, contratti sprint dalla durata inferiore ai tre mesi, sui cui le nuove norme non incidono. Un milione in più del 2012. E nove milioni totali tra 2012 e 2016. Ebbene, solo il 44% dei lavoratori sprint, non più impiegati nei fast jobs, è poi transitato verso forme strutturate di lavoro (appena il 30% verso il tempo indeterminato). Indice di precarietà endemica. Interessante anche la propensione delle imprese. Nel periodo considerato, mentre i contratti a tempo, i voucher, le somministrazioni si impennavano, collaborazioni e intermittenti declinavano per via di norme penalizzanti: due terzi in meno. Andamento analogo si registrerà nel 2017, avverte il Rapporto, quando i voucher, ora di fatto quasi eliminati, saranno rimpiazzati da altri fast jobs.
Repubblica – 16 dicembre 2017