Le incognite però non mancano, e si concentrano soprattutto sul 2024-25. L’Ufficio parlamentare di bilancio ha comunicato di aver inviato al Mef i «rilievi al quadro macroeconomico tendenziale provvisorio» costruito per il Def 2023, e non è difficile capire che il confronto sulla validazione riguardi il prossimo biennio. Per averne conferma basta riguardare le ultime proiezioni dell’Upb, che nella Nota sulla congiuntura di febbraio stimavano per il 2024 un +1,4% lontano dal +1,8% calcolato già a novembre al Mef. Prometeia, che fa parte del panel dei previsori dell’Upb, ha calcolato per quest’anno una crescita dello 0,7% che nel 2024 addirittura rallenterebbe al +0,6%.
Le variabili in gioco sono molte. E la prima è collegata all’attuazione del Pnrr. Tra i compiti del Documento di economia e finanza c’è infatti anche quello di aggiornare i conti sull’impatto macroeconomico del Recovery. Le tabelle dell’anno scorso misuravano in un +0,6% la spinta sul 2023, e attribuivano altri sei decimali aggiuntivi al 2024 (e sette nel 2025).
I dati sulla realizzazione finanziaria del programma indicano che quei calcoli sono da rifare. In teoria la notizia potrebbe non essere negativa, perché la spesa mancata finora si concentra nei periodi successivi. Il piano ora mette in calendario per quest’anno 40,9 miliardi, per circa due terzi aggiuntivi rispetto alle misure già nei tendenziali. In gioco ci sarebbero circa 1,4 punti di Pil, che anche con moltiplicatori prudenti non dovrebbero faticare a produrre quel +0,6% di crescita. In teoria, appunto.
Perché l’allarme sui ritardi ha aperto il cantiere della revisione del Pnrr italiano, con l’obiettivo di spostare i progetti «matematicamente irrealizzabili» entro metà 2026 come da definizione del ministro Fitto. I ministeri dovrebbero far convergere a breve su Palazzo Chigi la radiografia degli interventi in difficoltà, proprio mentre la Ue lancia la mappa interattiva online sullo stato di avanzamento dei progetti in tutti i Paesi.
Sul piano macroeconomico, gli eventuali slittamenti non sono gratis. Perché incidono non solo sulle performance dell’anno ma rallentano anche i ritmi di accumulazione del capitale pubblico attenuando quindi gli effetti complessivi sulla crescita potenziale. Proprio per questo, nonostante i toni alti di questi giorni, è probabile che alla fine i ripensamenti si rivelino almeno sull’orizzonte finanziario meno profondi di quanto lasci intendere il dibattito di oggi. «Certamente c’è un margine» per rivedere il Piano, fa sapere da Cernobbio il commissario all’Economia Paolo Gentiloni, che ribadisce i toni concilianti dei giorni scorsi anche sulla terza rata ancora sotto esame: «Non sono preoccupato – dice -, vedo una grandissima buona volontà del governo».
L’altro dato chiave del Def è rappresentato dalla linea del deficit. Su questo piano la chiusura della falla dei crediti d’imposta operata con il decreto di metà febbraio limita i danni, con la conseguenza che l’effetto della coda dei bonus gestiti alla vecchia maniera, e quindi integralmente da caricare sull’indebitamento netto dell’anno, anche dopo le riaperture in lavorazione in Parlamento non dovrebbe superare i 4-5 decimali di Pil. Numeri importanti ma gestibili grazie alla maggior crescita e ai risparmi dei vecchi bonus energia non utilizzati nell’ultimo decreto bollette.
Sul disavanzo pesano poi gli interessi sul debito, in continuo aggiornamento al rialzo. Anche in questo caso, il problema non riguarda il 2023 (venerdì il BTp decennale viaggiava 40-50 punti base sotto i livelli di fine ottobre, quando è stata chiusa la Nadef), che anzi potrebbe regalare qualche ritocco al ribasso, ma i prossimi: già a fine dicembre si calcolavano 4,5 miliardi di spesa annua in più nel 2024-25 rispetto alle stime di novembre. E il rialzo dei tassi alla Bce non è finito: come le preoccupazioni del ministro dell’Economia Giorgetti sul tema.