Consumi sempre più in basso. Anche a gennaio le vendite al dettaglio rilevate da Istat registrano un segno negativo: -0,9% rispetto a un anno fa. Insomma, sostanzialmente, non è cambiato nulla rispetto al dato medio del 2013, il peggiore dal 1990.
In dettaglio, a gennaio l’indice destagionalizzato delle vendite al dettaglio (incorpora la dinamica sia delle quantità sia dei prezzi) registra una variazione nulla rispetto al mese precedente. La flessione annuale dello 0,9% è la sintesi del -0,1% per i prodotti alimentari e del -1,3% per i non alimentari. I dati sulle vendite (di gennaio) però stridono con l’indice del clima di fiducia dei consumatori che, in marzo, è balzato da 97,7 a 101,7.
La debolezza estrema della domanda è coerente anche con il dinamismo dei discount: le famiglie in difficoltà hanno ridotto gli acquisti ma hanno anche puntato sul low cost. Sempre in gennaio, a fronte di una mini crescita di iper e supermercati (tra 0,2 e 0,6%), le vendite dei discount sono balzate del 3,1% su base annua (anche in frenata rispetto al passato). Continua invece la grande crisi del piccolo commercio, alimentare e non: -2,5%
«Dall’Istat non ci aspettavamo notizie diverse – esordisce Mario Resca, presidente di Confimprese, associazione del franchising – L’economia è ferma, le famiglie sono sofferenti per l’erosione del reddito e nel carrello mettono meno prodotti alimentari ma soprattutto hanno tagliato il non food». I dati dell’osservatorio Confimprese segnalano anche in febbraio una domanda debole: nei centri commerciali le vendite sono calate del 2,5% rispetto a un anno fa. Dato confermato in pieno da Federdistribuzione, che riunisce le catene della grande distribuzione. «I dati di febbraio e delle prime due settimane di marzo – commenta il presidente Giovanni Cobolli Gigli – indicano un ulteriore peggioramento del trend rispetto a gennaio, in preoccupante continuità rispetto al 2013. È necessario che il provvedimento deciso dal Governo di sostegno dei redditi più bassi sia attuato nei tempi previsti, pensando anche a come agire nei confronti della popolazione in grave difficoltà e che non rientra nel perimetro già individuato dei mille euro a 10 milioni di persone».
Per Mario Preve, presidente di Riso Gallo, «è importante che il Governo abbia deciso di aggiungere 80 euro nelle buste paga di milioni di lavoratori. È un primo segnale di ottimismo. Può funzionare da volano». E le vendite? «Rimangono deboli – risponde l’imprenditore – ma più che i volumi preoccupa l’erosione dei margini. Ora speriamo che dopo la tempesta faccia capolino il sole».
Tornando ai dati Istat, bersagliati i prodotti non alimentari. A gennaio i dati negativi hanno coinvolto quasi tutti i gruppi di prodotti, compresi farmaceutici e giocattoli: le flessioni maggiori riguardano cartoleria, libri, giornali e riviste (-3%), foto-ottica(-2,6%) e prodotti farmaceutici (-2,2%). Appena due le eccezioni: profumeria e cura della persona (+1,7%) e dotazioni per l’informatica e telefonia (+0,2%).
Alimentare, meno marche e più low cost
Una dieta così prolungata non se la ricorda nessuno tra gli operatori. Anche perché l’alimentare è stato sempre vissuto come un settore anticiclico, cioè scarsamente sensibile ai su e giù del ciclo economico. Certo siamo lontanissimi dal crollo dell’industria dell’auto o della meccanica, anche per quanto riguarda la gestione degli esuberi e della cassa integrazione.
Per esempio nel 2013, il calo della domanda di food & beverage ha toccato il -4% mentre la contrazione della produzione alimentare (132 miliardi) si è attestata a -1%, grazie all’ammortizzatore dell’export (+5,8%). Sono scivolate le vendite pressoché di tutti i prodotti, compresi quelli della tradizione italiana, come pasta, riso, frutta e ortaggi. Le famiglie hanno abbandonato il manzo e il vitello per i più economici pollo e tacchino; hanno trascurato le marche (se prive di promozioni) per puntare sul brand del distributore e su quelli anonimi dei discount. «C’è stata una polarizzazione tra riso di alta qualità e prodotto low cost – osserva Dario Scotti, industriale del riso (220 milioni di fatturato) –. L’industria di marca si può salvare solo puntando sul valore del prodotto, come abbiamo fatto noi». Alla fine la domanda di mercato in questi ultimi anni «ha subito delle limature dell’1-2% – sostiene Scotti –, ma ha tenuto: forse perché un piatto di riso costa molto poco ed è un prodotto nutriente».
Il Sole 24 ore – 27 marzo 2014