Anche in Italia, dove ogni anno si producono 11 milioni di tonnellate di latte di mucca, i consumi calano: rispetto a cinque anni fa, per esempio, sono diminuiti del 20%. Rischiamo dunque anche noi di fare la fine degli Stati Uniti, con i produttori che portano i libri in tribunale? Secondo Giuseppe Ambrosi, presidente di Assolatte, possiamo stare tranquilli, «in Italia questo rischio non c’è». E non perché i consumi non calino anche da noi, soprattutto tra i giovani. Quanto perché l’industria del latte made in Italy da sempre ha puntato sulla diversificazione, compensando così la diminuzione del latte da bere prima con l’aumento di latte destinato alla produzione di formaggi. E poi con l’innovazione dei prodotti derivati dal latte fresco: dallo yogurt da bere fino al latte senza lattosio.
«In Italia – racconta Ambrosi – il latte consumato fresco sarà anche passato dal 20 al 10% di quello prodotto, ma l’80% della produzione da sempre è stata destinata ai formaggi. In America, invece, è solo negli ultimi anni che si è sviluppata una produzione casearia più sofisticata. Fino a poco tempo fa producevano praticamente solo un’unica varietà di formaggio, da fare a fette e da usare in cucina». Ci vorrà del tempo, insomma, prima che anche negli Stati Uniti i produttori di latte possano salvarsi imboccando la via dei formaggi. Mentre in Italia questo lo hanno già fatto, tanto le grandi quanto le piccole aziende del settore.
Granarolo, controllata dalla società cooperativa Granlatte, con i suoi 8,5 milioni di quintali di latte lavorato ogni anno oggi è il più grande produttore italiano. Otto anni fa, il latte liquido rappresentava il 58% dei prodotti che vendeva, oggi è appena il 33%. «Se non avessimo scelto di spingere sulla diversificazione e sull’innovazione, anche noi oggi saremmo in difficoltà», racconta Gianpiero Calzolari, presidente della Granarolo. Che per l’Italia non vede rischi “americani”: «Il calo dei consumi c’è, ma non dimentichiamoci che l’Italia è ancora un Paese non autosufficiente dal punto di vista della produzione di latte. Ne beviamo di meno, ma ne importiamo ancora».
Il calo dei consumi ha indubbiamente aumentato la tensione tra le aziende concorrenti del settore, così come è indubbio che crea più difficoltà ai piccoli. Anche se di piccoli produttori, ormai, in Italia ne sono rimasti pochi, per la maggior parte le centrali del latte si sono tutte alleate tra loro o sono state assorbite dai giganti del settore, come Granarolo o Lactalis. Quella bresciana è tra le poche a resistere, peraltro, con buoni risultati: «Il latte fresco di alta qualità oggi rappresenta il 9% del nostro fatturato e il latte in generale ormai non supera il 50% – racconta Andrea Bartolozzi, direttore della Centrale del latte di Brescia – sono anni che diversifichiamo i prodotti, cercando quando più possibile di rimanere legati alle filiere del territorio, che a Brescia per noi significano soprattutto formaggi freschi. Bisogna poi investire in tecnologia, certo è costoso, ma solo così si può puntare su nuovi prodotti a base di latte fresco, che magari si diversificano solo per il packaging o per il tenore di grassi». Eppoi, dice Bartolozzi, non bisogna sottovalutare i nuovi canali di consumo: «In Italia c’è stata una grande crescita dei consumi fuori casa. Si berrà meno latte, ma di cappuccini al bar se ne bevono sempre di più: le aziende dovrebbero sviluppare sempre più prodotti ad hoc per questo canale».
I marchi del latte italiano, insomma, non moriranno. Semmai, assisteremo a un’evoluzione della proprietà, a una sua ulteriore concentrazione. «Per i piccoli, la strada da perseguire è quella dell’aggregazione», sostiene Calzolari. Che con la cooperativa Granarolo in passato ha anche fatto la sua parte: «L’ho sempre detto: per fare un’acquisizione un’azienda ha bisogno di soldi da investire, per una cooperativa invece è sufficiente pagare il lattaio».
Micaela Cappellini