Un uomo lavora presso una società in liquidazione e, successivamente alla cessione di un ramo di azienda, prosegue il suo rapporto di lavoro con una seconda società. Almeno fino alla risoluzione verbale del rapporto di lavoro.
La questione arriva al Tribunale, dove il lavoratore dice di aver svolto mansioni di natura dirigenziale e chiede l’accertamento dell’ingiustificatezza del licenziamento, con la relativa condanna del datore «al pagamento delle dovute differenze retributive, anche per TFR, dell’indennità di mancato preavviso e dell’indennità supplementare». Secondo le due società, invece, l’attività svolta è stata di mera consulenza e di procacciamento di affari. Sia in primo che in secondo grado la domanda del lavoratore viene respinta. L’ex lavoratore, dunque, presenta ricorso per cassazione. Gli Ermellini (sentenza 5957/12) osservano che la Corte d’appello – a differenza dei colleghi di prime cure – riteneva sì ammissibili i capitoli di prova formulati, ma, allo stesso tempo, «inidonei a dimostrare l’esistenza di un lavoro subordinato di natura dirigenziale, posto che non dimostravano una ingerenza dell’amministratore delegato sull’attività svolta dall’interessato». Il rapporto stretto tra lavoratore e a.d. non è un rapporto di lavoro subordinato. Insomma, anche se fossero risultate provate tutte le circostanze formulate – aggiunge il Collegio – «le stesse avrebbero potuto dimostrare solo una vicinanza tra il ricorrente e l’amministratore delegato ed un rapporto stretto tra i due», ma non che all’amministratore fosse consentito ingerirsi direttamente negli affari. La Suprema Corte, con il rigetto dei ricorsi, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
La Stampa – 25 giugno 2012