Nadia Ferrigo. Prima due giorni più due. Quest’anno sono due, il prossimo quattro più uno. Dal 2019? Crescono la voglia di paternità e la consapevolezza che la parità tra uomo e donna è un toccasana per la società e per l’economia. Ma sul congedo di paternità ancora nulla di certo, se non che siamo tra i peggiori in Europa. Gran parte dei Paesi concede ai papà da una a due settimane da trascorrere con i bebè. In Italia il pur già risicato congedo si dimezza: restano i due giorni obbligatori, cioè che spettano solo al papà, se ne vanno invece i due facoltativi, da usare in alternativa a quelli di maternità. Dopo aver fatto un passo indietro, se ne fa mezzo in avanti: dal 2018 saranno quattro obbligatori, più uno facoltativo. Poca cosa se paragonata alle nove settimane dei padri finlandesi, alle tredici degli islandesi, alle cinque dei portoghesi e alle dieci degli sloveni, con i primi venti giorni pagati al cento per cento.
I vincoli
Nel 2010 una risoluzione – non vincolante – del Parlamento europeo quantificò la durata del congedo per i padri in almeno due settimane, con due caratteristiche importanti: l’astensione dal lavoro deve essere obbligatoria e retribuita. Sono queste infatti le condizioni necessarie perché la disciplina, orientata a sviluppare il diritto e il dovere alla genitorialità, possa funzionare. Secondo i dati raccolti da un rapporto Unicef del 2008 l’assenza di una delle due condizioni si risolve nell’inutilità della misura.
Se a pagare è il datore di lavoro e non lo Stato – come capita in Grecia, Belgio, Malta, Lussemburgo e Paesi Bassi – i neo-papà non sono incentivati a restare a casa da lavoro, e i congedi funzionano meglio dove la retribuzione è più alta.
Ma per scardinare la convinzione che nei primi mesi di vita un bambino ha bisogno solo della mamma, è importante che i giorni di permesso siano prerogativa esclusiva del padre, senza prevedere la possibilità di alternarli al congedo di maternità. Lo dicono con chiarezza i dati raccolti dall’Inps: lo scorso anno i giorni obbligatori sono stati chiesti da oltre 80mila persone, quelli facoltativi da poco più di 8mila. La proporzione resta in tutti gli anni della sperimentazione: nel 2015, 70mila contro 9mila; nel 2014, 67mila contro 8mila.
I bonus
Alcuni Stati europei per incentivare l’uso del congedo di paternità hanno introdotto i «daddy’s bonus». La prima fu la Svezia, che nel 1974 garantì uguale accesso a uomini e donne ai congedi parentali pagati. Pochissimi uomini sceglievano di restare a casa, così nel 1995 fu introdotto il «daddy’s month»: un mese non trasferibile alla mamma, raddoppiato nel 2002 e pagato all’80%. Iniziativa replicata in Germania, dove se ciascun genitore prende almeno due mesi di congedo parentale, viene un concesso un mese in più, da condividere a piacere. Il bonus c’è anche in Italia: se il padre prende almeno tre dei sei mesi previsti di congedo parentale, allora c’è un mese in più di bonus.
Un limite culturale
Secondo uno studio di Piano C di Milano – il primo coworking italiano aperto anche ai bambini – presentato alla Camera, soprattutto tra papà più giovani cresce il desiderio di cura dei più piccoli. «Restano i pregiudizi, soprattutto sul lavoro – spiega Federico Ghiglione, pedagogista che da 7 anni tiene corsi e incontri dedicati ai papà -. Tanti temono non sia virile buttarsi in questa avventura, ancor di più se la misura è facoltativa. C’è anche una resistenza da parte delle mamme, convinte sia innaturale e rischioso allontanarsi dai bambini nei primi mesi di vita».
La Stampa – 26 aprile 2017