Medici con il bisturi in valigia, pronti a mettersi alla prova negli ospedali di altri sistemi nazionali: Inghilterra, Germania, Francia e Svizzera soprattutto. Esperienze internazionali, per fortuna. Ma il problema è che in molti partono non per scelta, ma per necessità. A causa di concorsi bloccati, turnover con il contagocce, poche opportunità di crescita e di carriera.
«Nel solo Veneto sono circa 40 i medici che tra il 2016 e 2017 suddivisi per fasce d’età hanno richiesto l’attestato al ministero della Salute e poi decidono di emigrare», racconta Domenico Montemurro, 41 anni, medico di medicina interna dell’ospedale Sant’Antonio di Padova e responsabile nazionale del settore giovani dell’Anaao Assomed, l’associazione dei medici dirigenti. I pochi dati disponibili sulla fuga dei medici italiani – che fa il paio con quella degli infermieri – sono sufficienti a scattare la foto di un una giovane classe di medici che, stanchi di aspettare, preparano le valigie, coltivando spesso la voglia di tornare. Secondo gli ultimi dati disponibili i medici che hanno chiesto al Ministero della Salute la documentazione utile per esercitare all’estero – stando a un rapporto dell’Anaao – sono passati da 396 nel 2009 a 2363 nel 2014 (+ 596%).
Nel Regno Unito, secondo i dati del General Medical Council, i medici italiani che prestano servizio sono più di 3000, rappresentando l’1,1% degli iscritti nel 2014. «Oramai siamo a circa 1000 laureati o specialisti che emigrano ogni anno. Per l’Italia il costo della formazione per singolo medico si aggira intorno a 150.000 euro», riflette Montemurro, «in termini economici, è come se regalassimo mille Ferrari all’anno agli altri paesi europei ed extra europei. Ovviamente il danno non è solo economico. Noi perdiamo talenti, intelligenze, saperi professionali, sottratti per incuria alla sostenibilità qualitativa del nostro Sistema sanitario nazionale e più in generale allo sviluppo scientifico e culturale del nostro Paese». La foto è difficile da scattare perché molti medici esercitano all’estero pur rimanendo iscritti all’ordine professionale della loro città, e viceversa perché ci sono medici che richiedono al ministero della Salute il certificato di onorabilità professionale, il good standing, necessario per poter esercitare all’estero e poi però non partono. Ma basta una chiacchierata con gli specializzandi per capire come il lavoro all’estero sia diventato, negli ultimi anni, un’ipotesi sempre più concreta per tutti.
«Ci sono due tipologie di medici con la valigia», spiega Montemurro, «da un lato ci sono coloro che non riescono a entrare nelle scuole di specializzazione e non ce la fanno, e vanno a specializzarsi direttamente all’estero, con un’età media di 26-27 anni. Dall’altro i medici che, dopo la specializzazione, non riuscendo a trovare spazio nel sistema sanitario nazionale, se ne vanno». Dove, senza turnover e senza concorsi, bloccati dal taglio delle spese, i camici in reparto sono sempre più anziani. Negli ultimi 13 anni i medici ultra 55enni sono passati dal 20 al 50%, la più alta in Europa, e nel podio mondiale dopo Israele. I giovani medici italiani se ne vanno all’estero a fare esperienza e fuggire dal precariato.
La voglia di lavorare e crescere professionalmente pesa di più dello stipendio nella bilancia delle alternative possibili. Un flusso che però è a senso unico. «Rispetto alle altre regioni d’Italia», aggiunge il giovane medico dell’Anaao, il turnover in Veneto funziona meglio rispetto ad altre regioni dove il problema è più acuto». Ad andarsene all’estero sono soprattutto medici di medicina interna, chirurghi, geriatri, anestesisti. In attesa di ricevere dal ministero il good standing.
La Nuova Venezia – 1 giugno 2017