La diseguaglianza tra i redditi non si riduce, in Italia, neanche quando si va in pensione. Anzi, una volta usciti dal mercato del lavoro la diseguaglianza sembra crescere, sia pure di poco, ed è più elevato il rischio di perdere potere di acquisto.
Dopo la pubblicazione, domenica scorsa, del primo Rapporto della fondazione David Hume – IlSole24Ore sulla distribuzione del reddito, abbiamo verificato il grado di concentrazione dei redditi tra pensionati misurato con l’indice di Gini (a zero l’equidistribuzione è massima mentre a uno tutto il reddito è su un solo soggetto). E la scoperta è amara: nonostante l’elevata spesa previdenziale la diseguaglianza tra pensionati è più alta di quella dell’intera popolazione. Nel 2011, secondo l’ultimo rapporto Istat sull’assistenza e la previdenza sociale (pubblicato lo scorso dicembre), il coefficiente di Gini dei pensionati era pari a 0,36 a livello nazionale, un po’ più basso nelle regioni settentrionali (0,34) e più alto al Centro (0,37) e al Sud (0,38). Come ha ricordato Luca Ricolfi nel suo editoriale di domenica, in Italia da circa vent’anni l’indice di Gini totale oscilla intorno a 0.33: «un valore più basso della media (ponderata) dei Paesi Ocse (pari a 0.35 nel 2013), e decisamente più basso del valore (0.37) che l’indice aveva in Italia alla fine dei “gloriosi 30 anni”, quelli caratterizzati dall’espansione dello Stato sociale».
Dunque i pensionati sono più diseguali dei lavoratori? Non proprio. Fabrizio Patriarca e Michele Raitano, due economisti dell’Università La Sapienza di Roma, hanno misurato il Gini su un campione rappresentativo utilizzando dati EU-SILC e hanno evidenziato che in realtà i Gini dei pensionati non sono lontanissimi da quelli dei lavoratori. Tra il 2006 e il 2010 l’indice sulle retribuzioni lorde dei percettori di una pensione (vecchiaia, invalidità e superstiti) è passato da 0,37 a 0,36 mentre quello dei lavoratori è rimasto stabile attorno a 0,38. Il confronto va letto tenendo conto di due “caveat”: non tutti i lavoratori raggiungono un reddito previdenziale e finiscono nell’assistenza e, più importante, durante la carriera lavorativa i redditi aumentano per progressione di carriera o scatti di anzianità, mentre la pensione segue una linea piatta, indicizzata solo all’inflazione.
In un altro studio presentato nel corso di un convegno sulla previdenza in Senato qualche mese fa i due economisti, utilizzando serie Eurostat, hanno evidenziato come il rischio povertà degli anziani in Italia (la percentuale di chi si trova sotto del 60% rispetto al reddito mediano) sia più elevato rispetto all’Eurozona e ai principali paesi di riferimento (Germania, Spagna, Francia e Regno Unito). Nel nostro Paese, scrivono i due analisti, il 21,9% degli anziani era a rischio povertà nel 2012: «a un sistema pensionistico con altissimi costi determinati non solo da dinamiche e strutture demografiche, ma anche da basse età al pensionamento e alte prestazioni (mediamente superiori ai redditi in generale), corrisponde una distribuzione delle pensioni fortemente sperequata».
Un’altra evidenza sulla disparità di reddito pensionistico, questa volta determinata dalla diversità di genere, è giunta invece da un recentissimo studio comparato dell’economista dell’OCSE Anna Cristina d’Addio. Il “gender pension gap” misurato nel 2011 rivela che i redditi da pensione percepiti da donne over 65 sono del 28% inferiori a quelli degli uomini nella media di 25 paesi dell’area, mentre in Italia il gap è sopra la linea del 30%. I sistemi di calcolo contributivi, che legano sempre più l’assegno pensionistico alla storia lavorativa dei singoli, non potranno in futuro che aumentare questi gap soprattutto nei Paesi, come l’Italia, dove le donne continuano ad avere bassi livelli di occupazione e carriere discontinue, con periodi di mancanza di contribuzione prima del pensionamento.
Il Sole 24 Ore – 29 aprile 2015